L’angolo di Michele Anselmi
Mi sbaglierò, ma ho l’impressione che con “Empire of Light”, nelle sale da giovedì 2 marzo con la Disney, l’inglese Sam Mendes abbia voluto girare, forte del potere contrattuale di cui gode a Hollywood dopo due 007 e “1917”, un film piccolo e personale, fuori moda, forse un po’ autobiografico. Diciamo, molto schematizzando, il suo “Splendor”, che pure resta il film più brutto di Ettore Scola e tuttavia mi pare qua e là citato affettuosamente. La vita esterna vista da dentro una sala cinematografica, che fu gloriosa e ora vivacchia, tra locali chiusi per mancanza di pubblico e riduzione del personale.
Siamo a Margate, ridente cittadina costiera del Kent, punta est dell’isola, nel 1981. Proietta la sua ombra sulla spiaggia il gigantesco cinema Empire in stile “art déco”, e sembra un presidio già assediato dal mutare dei costumi sociali. Lì lavora, con ruolo da vicedirettrice, la severa e zitellesca Hilary Small, una donna ultraquarantenne che ascolta in casa “It’s Alright Ma (I’m Only Bleeding)” di Bob Dylan e legge le poesie di Alfred Tennyson e Philip Larkin. È metodica, solerte, colta, ma qualcosa non torna: infatti un medico le chiede se prende regolarmente il litio prescrittole e soprattutto il proprietario del cinema, il malmaritato e squallido Mr. Ellis, si fa masturbare da lei in ufficio, forse per averla assunta contro tutto e tutti.
I manifesti e i titoli dei film in cartellone scandiscono il passare dei mesi: ecco “The Blues Brothers” e “All That Jazz”, poi “Nessuno ci può fermare”, la mondana anteprima regionale di “Momenti di gloria” (il regista Hugh Hudson è morto pochi giorni fa), “Toro scatenato”… Infine “Oltre il giardino”: e proprio l’apologo di Hal Ashby, con Peter Sellers nei panni di Chance il giardiniere, assumerà un valore particolare nel siglare la tribolata vicenda. Perché Hilary, poco propensa a prendere i farmaci che la rendono intorpidita, ha avviato una strana, tenerissima, storia d’amore con il suo sottoposto Stephen, un giovanotto di origine africana oggetto di odiosi episodi di razzismo in quella Gran Bretagna thatcheriana avvelenata dai naziskin e dai rigurgiti xenofobi di Enoch Powell.
Smaltato dalla fotografia di Roger Deakins, elaborata ma non ruffiana, “Empire of Light” è un melodramma quieto, spiazzante, attraversato da un senso di minaccia. Perché Hilary, che pure lavora lì, non ha mai visto un film seduta in platea? Perché il suo boss la tratta così? Perché Stephen, nonostante la notevole differenza d’età, la desidera e la cerca, ben sapendo che tutto congiura contro?
Mendes, classe 1965, sembrerebbe aver trasfuso nel film qualcosa della propria adolescenza, un po’ alla maniera di Spielberg, Branagh e Cuarón, ovvero di “The Fabelmans”, “Belfast” e “Roma”. O forse no. “La vita è uno stato mentale” sentiamo dire da qualcuno, non so se sia vero, ma di sicuro l’elegante cinema decaduto nel quale tutto (o quasi) si svolge non custodisce un richiamo nostalgico, un discorso sui bei tempi andati del grande schermo, semmai svolge un ruolo di rifrangenza emotiva, di palpito crepuscolare, di illuminazione esistenziale.
Dimagrita e truccata, mai così bella, Olivia Colman, nei panni dell’enigmatica/bipolare Hilary, si dimostra la versatile attrice che è, specie ad ascoltarla in inglese; ma sono funzionali al clima generale, quasi autunnale, Colin Firth, Michael Ward e Toby Jones, rispettivamente nei panni di Mr. Ellis, di Stephen e del malinconico proiezionista con un segreto familiare nell’armadio.
Michele Anselmi