L’angolo di Michele Anselmi 

Si poteva tranquillamente tradurre l’inglese “Disobedience” con l’italiano “Disobbedienza”, non fosse altro perché il romanzo di Naomi Alderman, da cui è tratto il film, è stato pubblicato in Italia da Nottetempo nel 2007, esattamente col titolo “Disobbedienza”. Non capirò mai perché complicare la vita agli spettatori, non tutti anglofoni e spesso costretti a inventarsi strani giri di parole al botteghino.
In ogni caso arriva nelle sale giovedì 25 ottobre, con “Cinema” di Valerio De Paolis, questo interessante ma non del tutto riuscito film di Sebastián Lelio, regista cileno di notevole talento giustamente premiato per i precedenti “Gloria” e “Una donna fantastica”. Alla sua prima volta con una costosa produzione girata in inglese, Lelio sembra meno libero del solito, più compresso, o forse solo intimorito dalla storia ambientata nella Comunità ebraica “haredi” di Hendon, a nord di Londra.
Dove, come spiega lo storico Ariel Toaff, “tutti negano il primato dello Stato sulla religione e obbediscono esclusivamente alla Torah, ma chi non abita in Israele si adegua alla legge del governo guidato da non ebrei accontentandosi di osservare usanze e riti nel quartiere”. Il codice interno è rigido: abbigliamento modesto, separazione tra i sessi, alimentazione regolata dalla “kashrut” senza carne di maiale, cavallo o coniglio, famiglie giovani e prolifiche con le donne al lavoro e gli uomini curvi sui libri come nei romanzi di Isaac Singer.
In questo contesto abbastanza soffocante, dal quale era scappata in gioventù per diventare una famosa fotografa a New York, torna la tormentata Ronit, solo per partecipare ai funerali del padre, un venerabile rabbino che nell’ultima sua predica in sinagoga, un attimo prima di essere colpito da un infarto, aveva parlato profeticamente della disobbedienza.
Incasinata e anticonformista, Ronit viene accolta con sospetto dalla comunità, come una sorta di estranea, e lei, d’altro canto, si diverte a provocare, indossando una parrucca, per aderire a certi “precetti” estetici femminili.
Ma c’è il fattore umano: la fotografa viene ospitata, per qualche giorno, dai suoi più cari amici d’infanzia, Esti e Dovid, lei timida e sottomessa, lui gran studioso destinato a diventare rabbino capo. I due coniugi non paiono così felici. Anche perché, in gioventù, Esti ebbe una fugace storia d’amore lesbica con Ronit e certe passioni non si sopiscono mai.
“Disobedience” è il racconto di una doppia disobbedienza e di un’accettazione dolorosa, anche se alla fine tutto sembra rimettersi a posto. Ma fino a quando potrà durare la tregua? Naturalmente, come spesso capita nei film ambientati nelle comunità ebraiche ortodosse, da “Un’estranea tra noi” di Sidney Lumet al recente “La sposa promessa” di Rama Burshtein, è il sapore unico dei riti, delle consuetudini, degli abiti, del rapporto uomo-donna a imprimere alla storia un gusto particolare, solenne e anti-moderno allo stesso tempo. Nel caso di “Disobedience” il ritorno di Ronit, ebrea non osservante, anzi piuttosto disinibita e incasinata, provoca uno smottamento progressivo degli eventi. E ci fermiamo qui.
Rachel Weisz, nei panni di Ronit e pure produttrice del film, deve aver molto amato questa storia, mettendo in gioco tutta se stessa, anche nelle scene di sesso, abbastanza audaci, che la ritraggono con la tormentata Esti, incarnata da Rachel McAdams (sì, sono due le Rachel…). Mentre il barbuto Alessandro Nivola conferisce al suo Dovid la giusta dose di prepotenza e fragilità, anche di sobrietà di fronte al deflagrare di quell’amore inatteso, proibito, appunto disobbediente.
PS. Esiste un film italiano che si chiama “La disubbidienza”, con l’articolo. Fu girato nel 1981 da Aldo Lado, tratto dal romanzo omonimo di Moravia.

Michele Anselmi