L’angolo di Michele Anselmi
“La forma dell’acqua” è il titolo del primo romanzo di Andrea Camilleri dedicato al personaggio del commissario Montalbano. Ma dubito che Guillermo Del Toro, 54enne regista messicano ormai asceso nell’Olimpo di Hollywood, conosca lo scrittore siciliano. I giochi del caso. Non è un caso, invece, se Del Toro piloterà la giuria della prossima Mostra di Venezia (29 agosto-8 settembre), dopo aver vinto il Leone d’oro 2017 proprio con “La forma dell’acqua”, cioè “The Shape of Water”. Nel frattempo il film, da mercoledì nelle sale per San Valentino, è stato candidato a ben 13 premi Oscar, nelle categorie principali, e di sicuro non uscirà a mani vuote dalla cerimonia del 4 marzo.
Rivederlo, cinque mesi dopo l’anteprima mondiale al Lido, è stato utile. C’è chi lo considera assai sopravvalutato, a me invece è piaciuto più della prima volta. Buon segno. Trattasi, per chi non sapesse, di una favola romantica, anche se bisogna intendersi sulla definizione, considerando lo sterminato amore per i “mostri” nutrito dal regista. Un po’ alla maniera di Tim Burton, ma con più audacia nel ritrarre il sesso e il nudo femminile, Del Toro ambienta la sua storia nel cruciale 1962. L’America è scossa dalla Guerra Fredda, dentro un misterioso e sterminato laboratorio governativo chiamato Occam (vai a sapere se c’entra il celebre “Rasoio di Occam”) viene tenuta segregata una strana creatura anfibia catturata in Amazzonia. Difficile, nel vederla, non pensare a “Il mostro della laguna nera” dell’omonimo film in bianco e nero, appunto all’Uomo-Branchia. La tenera e abitudinaria Elisa, muta ma non sorda, è solita ogni mattina bollire due uova, masturbarsi nella vasca da bagno, lucidare le scarpe e farsi un passo di tip-tap prima di andare al lavoro in quell’antro un po’ alla 007. Scommettiamo che solo lei riuscirà a entrare in sintonia – una sintonia sentimentale e perfino “scandalosamente” sessuale – con quell’umanoide sexy dalle risorse divine che fa gola anche ai sovietici?
A Del Toro piace ripetere: “I mostri siamo noi, non loro”. Infatti il più feroce della compagnia è il monumentale torturatore della creatura anfibia, un funzionario militare che s’illude di vivere nel Sogno Americano e invece dispensa incubi anche in famiglia. Michael Shannon è perfetto nel raffigurare questo cattivo a tutto tondo. Mentre Sally Hawkins è l’enigmatica e amorosa Elisa, l’incarnazione di una femminilità curiosa, solidale, sfacciata, senza complessi. Ma non sono da meno, per grazia e sensibilità, Richard Jenkins, Octavia Spencer e Michael Stuhlbarg, rispettivamente nei panni di uno squattrinato illustratore omosessuale amico di Elisa, di una cordiale e mal maritata donna delle pulizie nera e di uno compassionevole scienziato che forse non dice tutta la verità.
Naturalmente la favola si presta a interpretazioni di ogni tipo, anche in chiave politica nell’era di Trump, dei suoi muri e dei suoi pregiudizi. Avrete capito, infatti, che il “mostro”, la muta, il gay e la nera diventano, nella prospettiva di Del Toro, emblemi delle minoranze calpestate in un’America lontana, anzi ancora vicina; o si aiutano, unendo le forze, o sono destinati ad essere sconfitti. Già perché “Se non facciamo niente, siamo niente”.
È il mix tra buffo, romantico e grand-guignolesco a fare di “La forma dell’acqua” un film toccante, che maneggia la materia fantastica con ricchezza di invenzioni e dettagli, tra strizzatine d’occhio al film biblico “La storia di Ruth” e riferimenti iconografici alla linea filante delle Cadillac. Il tutto dentro una linea cromatica che tende al verde luminescente dell’acqua. Il titolo del resto viene da lì, come bene sintetizza il regista: “L’acqua è l’elemento più forte e malleabile, prende forma dall’oggetto che la ospita. Come l’amore”.
Inutile dire che si esce canticchiando l’evergreen “You’ll Never Know”, che fa da dolce leit-motiv.
Michele Anselmi