L’angolo  di Michele Anselmi

Ci vuole una certa audacia per far uscire nei cinema, di questi tempi, un film come “L’ora del crepuscolo”. Ma Stefania Rifiordi con la sua società “Invisible Carpet” sembra avere le idee chiare, e chissà che, sia pure nelle difficoltà date, il primo titolo da lei distribuito, al cinema da giovedì 20 gennaio, non trovi un nutrito ascolto. Per ora sono poche copie, quasi tutte in provincia, da Ascoli a Ragusa, da Polignano a Colleferro e Velletri; la settimana prossima Roma, Milano, Bologna, Napoli…
Braden King, 51enne cineasta indipendente, documentarista e fotografo, ha tratto “L’ora del crepuscolo” dal romanzo di Carter Sickels “The Evening Hour”, purtroppo non edito in Italia. È un mondo desolato, impoverito, a suo modo struggente, quindi molto “cinematografico”, quello evocato dalla vicenda. E cioè i monti Appalachi, dalle parti del West Virginia, un tempo fiorente zona mineraria, quando si estraeva il carbone, ora una specie di terra di nessuno, popolata di anziani murati vivi in case di legno e di giovani che arrotondano quasi sempre infrangendo la legge.
Cole Freeman è uno di questi. Ha l’aspetto del bravo giovanotto di montagna, con tanto di giaccone a quadri, cappelluccio da baseball e vecchio pick-up Ford. Il trentenne fa l’infermiere a contratto nella casa di cura della sua cittadina, sulla pagina scritta si chiama Dove Creek. Tutti gli anziani lo amano e certo lui si fa amare. Se non fosse che usa quel lavoro, lo capiamo quasi subito, per procurarsi dei soldi, parecchi soldi. Come? Comprando a buon mercato antidolorifici e oppioidi in eccesso prescritti ai pazienti agé per rivenderli in una lucida logica di spaccio, d’intesa con un trafficante locale con cappello da cowboy. Cole ha una bella ragazza, Charlotte, ma c’è qualcosa che non va in lei; e il ritorno in città di un amico d’infanzia, deciso a gettarsi in quel brutto giro di droga “da cucinare” in qualche laboratorio clandestino, peggiorerà decisamente le cose.
Siamo, per rendere l’idea, tra “Un gelido inverno” che rivelò la splendente Jennifer Lawrence e la serie tv “Justified” con Timothy Olyphant: la natura è superba, ma la vita è grama, sicché non resta, parrebbe, che il crimine di piccolo cabotaggio. Nel caso di Cole tutto è aggravato dall’agonia del nonno, che fu fanatico pastore “pentecostale”, e dal riaffacciarsi a sorpresa della mamma, a lungo assente nella sua vita.
Non si vede mai il sole in “L’ora del crepuscolo”, e certo la fotografia a luce naturale di Declan Quinn rende tutto grigio, livido, freddo, come s’addice a quei panorami geografici e mentali che sembrano uscire da una ballata triste di John Prine. Avrete capito: vecchie miniere cadenti, ettolitri di birra Budweiser, canzoni country, abitazioni fatiscenti, tatuaggi dappertutto, scazzottate e pistole, ma anche citazioni dal Vangelo secondo Matteo (“Tornerò nella casa che ho lasciato, trovandola pulita e nel giusto ordine”).
Insomma, non mancano i cliché tipici di un certo cinema di ambiente proletario-rurale, anche se il regista li usa, forse un po’ allungando il brodo sul piano drammaturgico ma con partecipe sguardo antropologico, per raccontare qualcos’altro: ovvero l’ambigua redenzione del protagonista, nell’attesa di una parola di carità e misericordia che forse non arriverà mai.
Purtroppo il doppiaggio italiano non restituisce neanche un po’ il colorito slang di quelle zone remote, ma le facce sono ben scelte, a partire da quella di Philip Ettinger, che fa il tormentato Cole (nel cast anche l’emergente Stacy Martin e le più note Tess Harper e Lili Taylor). Musiche ben scelte e non soverchianti, in linea con l’atmosfera generale, con un po’ di old-time e una canzone, “The Fading” di Joan Shelley, che viene voglia di cercare subito in rete per riascoltarla.

Michele Anselmi