L’angolo di Michele Anselmi

Oggi, giovedì 9 giugno, arriva nelle sale con Lucky Red la seconda parte di “Esterno notte”, il lungo film di Marco Bellocchio, in tutto 5 ore e 35 minuti, pensato come serie televisiva in tre puntate (andrà in autunno su Raiuno). Saprete ormai che ricostruisce il sequestro Moro da un punto di vista diverso rispetto a “Buongiorno, notte”, il film del 2003 sempre diretto dal regista piacentino: non più la vita all’interno del “covo” brigatista, bensì quanto accadde fuori, appunto all’esterno di quella prigione. Naturalmente il tutto narrato alla maniera estrosa, a tratti visionaria, di Bellocchio. Francamente non si può dire che la prima parte, sul mero piano degli incassi, sia stata un successo: circa 472 mila euro in tutto, nonostante recensioni positive e intensa pubblicità. Temo però che non sia la lunghezza il problema, bensì il tema stesso, ritenuto respingente. Vedremo come andrà questa seconda, composta da tre episodi; quello centrale, costruito su Margherita Buy che incarna la moglie di Moro, è davvero bello e intenso. Qui di seguito quanto scrissi per “La Gazzetta del Mezzogiorno”, Cinemoniotor e Facebook quando “Esterno notte” debuttò nei cinema italiani, il 18 maggio. Più sotto trovate una riflessione di Mario Sesti per Facebook che mi pare interessante e condivido volentieri.

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■ di Mario Sesti dalla sua pagina Facebook
A proposito. Una mia amica più intelligente, vedendo con me “Esterno notte”, mi ha detto che sembra un film di Paolo Sorrentino.
In effetti la ricostruzione di fine anni Settanta somiglia poco ai film di Bellocchio degli anni Settanta (“Sbatti il mostro in prima pagina”), molto di più a “Il Divo”.
È forse la prima volta che un regista italiano emerso nel Duemila ne influenzi uno considerato un maestro che ha segnato con il suo percorso il cinema dagli anni Sessanta: come se Petri, per dire, negli stessi anni, con il suo cinema linguisticamente più libero, innovativo, energetico, avesse lasciato visibili tracce in quello di Fellini o Antonioni proprio in quegli anni.
Poi mi sembra romanzesco il fatto stesso che il regista che ha esordito con il più celebre massacro familiare immaginario trovi oggi un diapason così preciso, nella messa a fuoco chirurgica, laser, di intimità individuali sempre profonde e infiammate, nel descrivere il martirio involontario di un uomo cui un nipotino che dorme sotto lo stesso tetto procura l’unica serenità possibile.
Quando Bellocchio descrive la Dc come istituzione ha ancora la falcata del militante di Servire il Popolo, incalzante e barricadera, quando parla di Moro (e addirittura di Paolo VI, tra i migliori personaggi addirittura) affonda in una pietas che è una conferma indiretta della lezione di Sorrentino: il potere è insensato e grottesco, perennemente in preda al panico, ostaggio dei propri ermetici rituali.
Unica salvezza? La famiglia. Il personaggio più dannato è l’unico che non ne abbia più una: Cossiga.
La realtà sarà pure scadente, ma la Storia ha una creatività e una libertà che non conoscono limiti al proprio potere: la Storia immodificabile del Potere, e il potere sempre sorprendente della Storia trasformata in storia. Di questo parla anche direttamente, e indirettamente, oggi, il cinema di Bellocchio.
Che viene fuori senza mediazioni, con la sua voce inconfondibile, come una confessione, come una preghiera forse, nel momento più toccante dentro la sequenza più grottesca: la perquisizione della clinica di ricoverati psichici Aurora. Quando un Cossiga assediato da sensi di colpa, allucinazioni, ombre paranoiche viene avvicinato da un malato che cerca di calmarlo consigliandogli l’internamento, vera soluzione all’inferno delle turbe mentali: un gesto autentico di pura fraternità tra coloro che soffrono di mali oscuri, una mozione di solidarietà del genere umano contro il mondo di sapore quasi leopardiano cui Bellocchio ha fatto ricorso da “L’ora di religione” in poi, direi.