Una cosa di cui mi vergogno risale a quando ho scritto a https://www.theredhandfiles.com/, il sito dove Nick Cave tiene una fitta corrispondenza con chiunque voglia dirgli qualcosa, per chiedergli di fare un’intervista su Bob Dylan. Peccando di superficialità non avevo messo bene a fuoco quale sia l’intento dei Red Hand Files, cioè il desiderio dell’ideatore di non nascondersi più dietro ai paraventi tipici di una rockstar e parlare in maniera diretta con i propri interlocutori. Col tempo, dopo la morte del figlio, il sito si è ulteriormente tramutato in un punto d’incontro tra persone toccate dalla sofferenza o accomunate da un lutto. Giustamente Nick Cave non mi ha mai risposto.
Il suo nuovo libro “Faith, Hope and Carnage”, frutto di conversazioni con Seán O’Hagan, si dimostra davvero originale per l’arditezza con cui l’autore intraprende il progetto di ovviare al deficit linguistico nei confronti della sciagura. Quando una disgrazia a livello personale si abbatte su di noi e ci sconvolge la vita, non esistono parole in grado di rendere l’idea di quello che sta succedendo. Il linguaggio fallisce. Ma Nick Cave non si arrende, vuole raccontare, vuole soprattutto condividere. Solo così si comprendono appieno il suono e la voce alterata di Ghosteen, l’album sull’accettazione della scomparsa del proprio figlio, che tanto hanno irritato i suoi fan di vecchia data. Nick Cave non ha nulla da perdere e non ha più paura di dichiararsi religioso, credente nonostante la perdita del figlio, deluso dal secolarismo della nostra società.
“Dio non è mai molto lontano”, cantava in “The Mercy Seat”, brano poi ripreso da Johnny Cash in una grande reinterpretazione assolutamente degna di questo nome. Cash ha addirittura scritto un’immaginaria biografia di San Paolo, Man in White, nella quale convergono tre epifanie di diverso tipo: una visione del padre defunto di Johnny che gli appare in sogno avvolto in una luce intensa; la trasfigurazione di Gesù in compagnia di Mosè e Elia in cima al monte; la conversione alle porte di Damasco dell’ex persecutore dei cristiani Paolo di Tarso. Nel libro Johnny Cash non si nasconde, espone apertamente la sua fede monolitica nelle Sacre Scritture. “Sia ben chiaro che io ritengo la Bibbia, la Bibbia intera, come l’infallibile, incontestabile Parola di Dio”, scrive senza mezzi termini nell’introduzione.
“Piccole cose che a volte accadono e nessuno può portarti via”, così Nick Cave ha descritto il suo incontro con Johnny Cash. Accadde in uno studio di Malibu. Cash era già parzialmente cieco e camminava a stento. Ma quando prese in mano lo strumento, Cave ricorda di averlo visto stare improvvisamente bene. I due condividono forse una parte di percorso, come se avessero riacquisito in tarda età quella che una volta veniva definita l’innocenza della fede. In “Faith, Hope and Carnage” Nick Cave si trova perfettamente a suo agio a meditare sul tema del dolore, sulla catarsi delle esperienze live, sul potere trasformativo della musica, su come ti possa aiutare a riconoscere le impronte di Dio.
Ma sorge spontanea una domanda: come farà a riconciliare il suo progetto di rockstar con l’intransigente percorso di redenzione che si è prefigurato?

Marco Zoppas