Diciannove anni dopo “Buongiorno, notte” Marco Bellocchio torna a girare un film sul rapimento di Aldo Moro. Questa volta il regista decide di raccontare uno dei periodi più tesi della Repubblica italiana non dal punto di vista delle Brigate Rosse, ma da quello dello Stato. Non più il covo in cui il presidente della Democrazia Cristiana era tenuto prigioniero, ma la luce del sole di Roma che irrora gli uffici governativi e le stanze dello Stato Pontificio. Il film, nato originariamente come una serie tv (sarà trasmessa in varie parti sulla Rai in autunno) è un opera monumentale di oltre cinque ore, divisa in due lungometraggi di oltre centoventi minuti ciascuno in uscita nelle sale a poche settimane di distanza tra loro (la seconda parte sarà disponibile nei cinema il nove di giugno).
La prima delle due pellicole, divisa in tre lunghi capitoli, inizia, inaspettatamente, citando il sognante finale di “Buongiorno, notte”. Ma l’utopia finisce ben presto. Le lancette della storia vengono riportate ai giorni precedenti al giuramento del nuovo governo Andreotti, figlio dell’inedito compromesso storico tanto voluto dal presidente della Democrazia Cristiana. Il leader del primo partito in Italia è costantemente scisso tra la ragion di Stato e il suo ruolo di padre, marito ed insegnante all’università. Il rapimento viene messo in scena grazie alla sapiente regia di Bellocchio che si serve, spesso, di lunghi piani sequenza al cardiopalma ed inquadrature in soggettiva. Una volta che Moro inizia il suo calvario lungo cinquantacinque giorni, il presidente della Democrazia Cristiana scompare dalla messa in scena, se non palesandosi sotto forma di incubi e visioni, per diventare un fantasma che infesta i sogni dei leader politici che stavano provando a salvarlo, Cossiga (al tempo ministro degli Interni) ed il Papa (interpretato da Toni Servillo) su tutti. È proprio su questi due personaggi che si concentra l’introspettiva analisi portata avanti dal regista nei due capitoli successivi. Il primo, logorato, allo stesso tempo, dal conflittuale rapporto con la moglie e dal rapimento dell’amico Aldo, il secondo alle prese con la caducità delle sue condizioni di salute.
Sono proprio i brillanti espedienti di finzione che indagano l’intimità dei personaggi, uniti alla qualità quasi documentaristica della narrazione, ad elevare la solidità della sceneggiatura scritta da Bellocchio, Stefano Bises, Ludovica Rampoldi e Davide Serino. Impossibile non menzionare la scena in cui all’ormai stremato Cossiga appare una visione di Moro, una sequenza dai toni drammatici che potrebbe non sfigurare in un film di David Lynch. Ad impreziosire la pellicola ci pensa anche un montaggio dai ritmi serrati che riesce a rendere incalzante le quasi tre ore di durata, valorizzando ulteriormente gli espedienti registici impiegati da Bellocchio. Se in “Buongiorno, notte” la colonna sonora consisteva in un refrain a più riprese di “Shine On You Crazy Diamond” dei Pink Floyd destinato ad esplodere solamente nel finale, qui il comparto musicale viene affidato a Fabio Massimo Capogrosso che affresca la pellicola con tinte dal sapore jazz fatte di incursioni di vibrafono che, quando necessario, sanno sottolineare la tensione destinata ad esplodere, valorizzandola. Il film riesce nel suo intento tratteggiando, senza intenzioni partigiane, una ricostruzione minuziosa del complesso ecosistema che gravitava attorno al rapimento Moro: politici della DC, brigatisti, certo, ma anche consulenti americani inviati da Washington, rimandi alla loggia massonica P2, l’infuocato ambiente universitario de La Sapienza ed il clero. La pellicola brilla anche per il forte simbolismo che caratterizza la regia. Potentissima la scena in cui Aldo Moro, accostato alla figura di Cristo, viene obbligato a reggere il peso della croce durante la Via Crucis al posto di Paolo VI, mentre romba la “Dies Irae” di Verdi.
Il simbolismo della pellicola viene elevato anche dall’uso metaforico che regia e fotografia fanno della costante dialettica tra luce e ombra. Opposti che dialogano fra loro, in cerca di un’instabile sintesi. Noi e loro. Lo Stato, le cui fondamenta sono minacciate nel profondo, contro le Brigate Rosse. Le oscure stanze governative in cui si muove la diplomazia tentacolare di Andreotti e Cossiga contrapposte al bagno di luce che investe la Città Eterna. Le contraddizioni del periodo sono tutte racchiuse nelle due ore e quaranta di questa pellicola, diretta da un regista che, a ottantadue anni, si riconferma, dopo “Il Traditore”, una delle punte di diamante del cinema italiano. Chissà cosa riserverà agli spettatori durante la seconda parte, date queste premesse.

Gioele Barsotti