L’angolo di Michele Anselmi

Ecco la collocazione giusta per “Esterno notte”: stasera, domani e giovedì 17 in prima serata su Raiuno, per un totale di circa 5 ore e mezza. Dopo l’anteprima al festival di Cannes e l’uscita nelle sale in due macro-parti il 18 maggio e il 9 giugno scorsi, con incassi piuttosto deludenti, ma forse era prevedibile, l’ambiziosa miniserie di Marco Bellocchio approda con tutti gli onori sul piccolo schermo, in un orario di massimo ascolto, e vedremo come il pubblico televisivo/generalista risponderà alla proposta. Naturalmente si può non essere d’accordo, in parte o del tutto, con la prospettiva offerta dal regista piacentino, già al lavoro su un film chiamato “La conversione”, ma di sicuro “Esterno notte” è un’opera complessa, stratificata, ben recitata, nella quale convergono fatti comprovati e libertà creative, com’è giusto che sia con Bellocchio al timone.
Naturalmente incuriosisce la vitalità di questo regista ottantaduenne, ancora tra i più giovani del panorama italiano, di sicuro l’unico, o quasi, capace di misurarsi con episodi cruciali della nostra storia recente. Fresco è il ricordo del suo “Il traditore” su Tommaso Buscetta, anche il suo più gran successo commerciale se ricordo bene; ma con “Effetto notte”, prodotto da Lorenzo Mieli insieme alla Rai, l’indagine si fa ancora più audace, pure delicata, perché, diciamolo, ognuno pensa di avere una sua personale “verità” attorno al sequestro e alla morte di Aldo Moro.
Mesi fa Maria Fida Moro parlò di “accanimento da avvoltoi”, forse esagerando nel giudizio morale; di sicuro questo torrenziale film va visto in relazione al precedente “Buongiorno, notte”, passato non proprio indenne alla Mostra veneziana del 2003, quando il presidente di giuria Mario Monicelli molto s’incavolò a causa di quel finale sorprendente.
Qualcuno ricorderà, forse. Nel sogno di Anna Laura Braghetti, una delle Br che avevano progettato, attuato e gestito il sequestro, il presidente della Dc alla fine se ne andava libero da quel covo, con l’alba negli occhi. Qualcosa del genere accade ora con “Esterno notte”, almeno nell’incipit, sicché non rivelo nulla di particolare: tre grandi capi democristiani, Andreotti, Cossiga e Zaccagnini, camminano a passo spedito in un corridoio d’ospedale, in una stanza c’è Moro, un po’ affaticato dopo quei 55 giorni di reclusione, ma ancora vivo, anzi pronto a guardarli negli occhi per ribadire che si dimetterà da tutto.
Il tono della scena è realistico, benché “scandaloso” e spiazzante, e da lì prende le mosse questa corposa ricostruzione del caso Moro, dei giorni tra il 16 marzo e il 9 maggio del 1978. Fu “la notte della Repubblica”, per dirla con Sergio Zavoli, e Bellocchio offre ora il suo contributo artistico, immagino sofferto considerando l’antica militanza nell’estrema sinistra, vedendo quel sequestro come una sorta di via crucis. Non a caso il manifesto porta in effigie lo scudo democristiano, definito, nel disegno, da una corona di spine e da una croce composta di rose.
Moro come un Cristo verso il Calvario, infatti una sequenza ad alto tasso simbolico mostra lo statista che cammina sopraffatto dal peso di una croce tra i templi dell’antica Roma (siamo a Cinecittà), seguito da una folla di muti capi democristiani mentre infuria il “Dies Irae” verdiano.
Diviso per capitoli, ciascuno annunciato da un numero, “Esterno notte” isola sei personaggi fondamentali, attorno ai quali far muovere l’affollato cast corale in un clima di fosco passaggio storico, tra pressioni americane, pastrocchi italiani, meschinità varie e notevoli depistaggi. Sono, nell’ordine: Aldo Moro, che torna anche nell’epilogo, Francesco Cossiga, papa Paolo VI, Adriana Faranda e Valerio Morucci, Eleonora Moro, rispettivamente incarnati, spesso molto bene, con straziante adesione psicofisica, da Fabrizio Gifuni, Fausto Russo Alesi, Toni Servillo, Daniela Marra, Gabriel Montesi e Margherita Buy.
“Non perdono tutti ma non c’è odio per nessuno” ha premesso Bellocchio con una formula retorica che restituisce, almeno in parte, il suo punto di vista. Secondo il quale, pare di capire, Moro fu certo giustiziato dai brigatisti rossi, benché divisi al loro interno sul da farsi, e però la morte di quel democristiano ingombrante, fatto passare per “pazzo” per renderlo inattendibile, fu accettata come un male minore dal mondo politico italiano nel suo insieme.
Vero? Falso? E ancora: fu fermezza o solo intransigenza? I dilemmi non sono proprio nuovi, diciamolo, ma la robusta sceneggiatura firmata dal regista insieme a Stefano Bises, Davide Serino, Ludovica Rampoldi, con la consulenza del giornalista Giovanni Bianconi, maneggia la delicata materia, stavolta pensata tutta all’esterno del luogo di prigionia, largheggiando in digressioni e invenzioni creative; e forse stanno proprio lì le cose migliori, più fantasiose e insinuanti, anche sul piano dello stile.
Per dirne solo alcune: i “sogni” degli italiani restituiti dalle intercettazioni a tappeto, il tricolore attorcigliato sul balcone del Viminale, le confessioni dei “matti da slegare” quando le indagini sembrano portare fin dentro un manicomio, le visioni del “bipolare e ciclotimico” Cossiga, le baggianate di sensitivi e veggenti, il pontefice ormai infiacchito che “prova” a sostenere tre croci di diverso peso, senza riuscirci, in vista di una via crucis alla quale non parteciperà, prima di pronunciare il suo famoso messaggio rivolto agli “uomini delle Brigate rosse”.
“Cosa c’è di folle nel non voler morire?” scandisce il dolente Moro quando sente avvicinarsi l’ombra concreta della morte, e certo Gifuni s’è immerso totalmente, sul piano fisico e vocale, in quel ruolo già sperimentato a teatro nello spettacolo “Con il vostro irridente silenzio”. Nel ritratto del politico pugliese di Maglie, morto troppo presto nell’imbarazzo generale, Bellocchio dà il meglio di sé: per la “pietas” con la quale nutre certi episodi familiari, per i riferimenti cupi ai generali in subbuglio, anche per le sottolineature (autocritiche?) riservate al fanatismo stolido degli studenti universitari, alle farneticazioni ideologiche dei brigatisti, gasati dalla visione di film western come “Il mucchio selvaggio”, forse in cerca della “bella morte”, alla faccia della Rivoluzione sempre rivendicata.
“Sulla vita e la morte di Moro giudicherà la Storia” sentiamo nel finale, che ribalta la sequenza d’apertura spiegandone il senso. E forse, se una critica di merito viene da fare a Bellocchio, riguarda il notevole schematismo col quale rievoca il cosiddetto “partito della fermezza”, in particolare l’atteggiamento assunto dal Pci (quel Berlinguer ritratto così, ipocrita e distaccato, è davvero una notevole carognata).
Annotazione di pura cronaca, appena polemica per fatto personale: si vedono molte prime pagine dell’epoca nel lungo film di Bellocchio. La più inquadrata è “la Repubblica”, insieme al “Giornale” e al “manifesto”. Come se non fosse esistita, invece, “l’Unità”: viene mostrata una sola volta, pure di sguincio, quasi con fastidio.

Michele Anselmi