A volte capita di imbattersi in un film che, nonostante gli sforzi, rifugga ostinatamente alle catalogazioni; molto spesso ciò succede con lavori particolarmente riusciti, che vanno oltre i confini del genere e delle forme normalmente codificate. In questo senso è sintomatico evidenziare che una categoria come quella del grottesco si presti molto bene a questo genere di approccio, come nel caso di un film come Excision di Richard Bates Jr., non ancora (e forse mai) distribuito in Italia.
Il contorno narrativo è semplice e piuttosto stereotipico, la classica famiglia borghese con due figlie, una problematica (la protagonista – Pauline) e una perfettamente educata ma condannata a una morte dolorosa e prematura a causa di una grave malattia. È il genere di storie che piace al von Trier degli ultimi tempi, per capirci; la mente balza subito a Melancholia dove però l’istituto della società occidentale veniva demolito pezzo per pezzo da una minaccia che – per quanto avesse chiare ripercussioni sulla vita degli individui – rimaneva pur sempre esogena. Qui invece il grido silenzioso di un allarme inascoltato viene direttamente dal cuore dell’architettura familiare.
Come in molti film sperimentali o indipendenti (pensiamo a Gerry di van Sant, o a qualche film di Kim ki-duk) non è errato dire che in Excision non succede nulla per tutta la durata del film, ma questo – se ne accorga il lettore più avveduto – non è sempre un male. Lo sviluppo narrativo è generato soltanto da un concatenamento di eventi legati insieme da un debolissimo filo narrativo, assolutamente ininfluente ai fini della comprensione generale della vicenda. Dato il finale, il sapore che ci si ritrova in bocca è poi di assoluta indeterminatezza, tanto che vale la pena chiedersi se ci fosse un senso in ciò che si è visto. Come succede sempre in questi casi, quindi, la nostra attenzione, (finalmente) allontanata dal comparto narrativo, si concentra felicemente sugli artifici linguistici messi in campo.
Ed è qui che Excision mostra la sua vera cifra, dispiegando un repertorio di soluzioni registico-fotografiche assolutamente inedito e inaspettato, a conferma che quando viene meno l’attenzione per gli eventi è possibile catalizzare lo sguardo spettatoriale sulla vera natura del cinema. La struttura visiva è una sinusoide e si caratterizza per continue esplosioni d’immagine seguite da avvallamenti di stasi. Ai deliri onirici di Pauline, rappresentati con colori volutamente pop fanno da controcampo i dialoghi introspettivi (e volutamente ironici) che la stessa protagonista intrattiene con Dio, ripresi dall’alto (con il nostro punto di vista che significativamente si sovrappone a quello divino) e su uno sfondo completamente nero.
Ciò che stupisce è come anche i momenti più propriamente grotteschi, dove il sangue è l’elemento dominante della scena, risultano assolutamente svuotati di qualsiasi potere evocativo da un punto di vista della narrazione; questi momenti non sembrano altro che un esercizio di stile, un elogio a un tipo di cinema che – cristallizzatosi in forme ormai ben definite – non può fare altro che procedere oltre rendendo omaggio a se stesso e alle conquiste che ha generato. Anche il finale, raggelante e bellissimo, sembra inserirsi su questa linea, con l’urlo della madre a chiudere il film, come se il malessere esistenziale della protagonista si fosse trasferito alla donna che, al contrario della figlia, lo grida con tutta la sua disperazione mentre stringe, in un abbraccio malato, la mostruosa creatura che ha generato.
Abbiamo voluto dare spazio a un film che probabilmente non avrà nessun seguito in Italia, un film che però ci è sembrato assolutamente meritevole di attenzione proprio perché ha fornito degli elementi visivi e concettuali che sarebbero utili a una riflessione più consapevole sulle proprietà del mezzo filmico, soprattutto in un paese come l’Italia dove ormai la maggior parte dei lavori filmici sembra essersi congelata in un manierismo ormai privo di qualsiasi fuoco sacro.
Giuseppe Previtali