L’editoriale di Roberto Faenza | Cultura e televisione

All’inizio del mese di aprile si è tenuto un simposio, organizzato dall’Italia dei valori, dal titolo inquietante, visti i tempi, “Facciamo lavorare la testa”. Non capita tutti i giorni di avere allo stesso tavolo per parlare di cultura due ministri, Profumo e Ornaghi. Il primo in particolare è stato “affrontato” dai precari della scuola, il secondo da un gruppo di artisti presenti in sala. Mentre Profumo ha interloquito con gli insegnanti (parecchio arrabbiati), il secondo si è limitato a un breve intervento di prammatica. Nonostante le buone intenzioni dell’instancabile organizzatrice dell’incontro Giulia Rodano, mancava però la presenza di un terzo ministro. E non già per dimenticanza degli organizzatori, ma per un’antica distribuzione dei dicasteri ormai obsoleta.

Oggi parlare di cultura non ha senso se non si include Internet e soprattutto la televisione. Ripeto sempre che viviamo in un paese dove lo stato la mattina spende una gran quantità di denaro per educare i giovani a scuola e poi il pomeriggio e la sera ne spende ancora di più per diseducarli con una certa televisione. In tal senso spiace apprendere che ancora una volta l’esecutivo si appresterebbe a definire la governance della tv pubblica partendo dalle caselle da riempire. Quello che un servizio pubblico degno del nome dovrebbe fare prima di tutto non è la nomina di questo o quel manager, se pur valente. E’ la riforma dei contenuti che va fatta. A meno di decidere una volta per tutte che tra tv pubblica e tv commerciale non sussiste differenza. E allora la domanda che nasce spontanea è: perché pagare il canone per avere a pagamento quello che altri offrono gratis? Il baratro in cui versa la televisione è lo specchio fedele dello sconquasso che agita l’universo della comunicazione.

Negli ultimi dieci anni, le reti televisive italiane hanno perso insieme 2.300.000 spettatori, passando dal 90,7% di share al 76%. Secondo il recente rapporto Eurispes, solo per il 47,9% dei ragazzi tra i 12 e i 18 anni la tv costituisce la principale fonte d’informazione. Per fortuna, visto quello che passa il convento. Il 52% afferma di essere più interessato a Internet, grazie all’opportunità di stringere relazioni e produrre contenuti autogenerati. Non stupiamoci dunque se la pubblicità oggi preferisce investire sull’innovazione di Facebook o di Google, anziché sulla spossatezza della televisione.

Se la televisione piange, gli altri media non ridono. Il cinema per esempio continua a perdere colpi. Pesa la crisi economica, come pure la ridondanza di un surplus di pellicole tutte uguali che ha finito per stancare il pubblico. Pesa anche la pirateria, per cui non c’è praticamente film che al momento dell’uscita non sia già scaricabile in rete. Ma il peggio è che un crescente degrado culturale sta emarginando i titoli migliori. Com’è possibile che un film come Cesare deve morire, vincitore al Festival di Berlino, da noi venga visto da poche migliaia di spettatori e quasi nessun giovane? Oppure Una separazione, film premiato con l’Oscar, visto in Italia da meno di 100.000 spettatori e in Francia quasi da un milione? Sono i francesi un popolo più colto, oppure significa che c’è qualcosa da noi che non funziona? Di recente ho polemizzato, ricevendo insulti dalle associazioni degli esercenti, per il dilagare dei multiplex, dove il cinema di qualità è quotidianamente ghettizzato, coincidendo con la chiusura di centinaia di sale cittadine. La conseguenza è che un numero consistente di spettatori in gran parte adulti si trova oggi praticamente senza schermi. Per non parlare di un mercato, drogato dalla presenza di un ferreo duopolio, sostanzialmente fuori norma rispetto alle direttive UE, perché le stesse compagnie surrettiziamente detengono insieme produzione, distribuzione ed emittenza, il che è vietato in tutti gli altri paesi europei.

In realtà manca una riforma di sistema. Da tempo si dice che basterebbe copiare, anzi fotocopiare, la legislazione francese, che funziona a meraviglia. Bastino questi dati: nel corso del 2011 la produzione d’oltrealpe, a parità di numero di cittadini, ha incassato esattamente il doppio di noi: 215 milioni di biglietti contro i 100 italiani. All’inizio del 2012 la Francia ha fatto incetta di Oscar con The Artist. In Italia, in queste settimane, con due soli film sta incassando quanto una decina di pellicole nostrane. Vogliamo parlare della fiction italiana a confronto con gli altri paesi? Da noi le reti generaliste Rai e Mediaset lo scorso anno hanno investito complessivamente circa 500 milioni di euro (in massima parte gestiti da un pugno di clientes in barba al pluralismo).

In Inghilterra le reti generaliste investono il doppio, oltre 1000 milioni, opportunamente spesi senza favoritismi. Sarebbe bello che qualcuno al governo meditasse su questi dati e facesse un pensierino costruttivo. Sino a oggi si è data una risposta di comodo, adducendo la scarsità delle risorse in tempi di crisi finanziaria. Ma è una risposta basata sulla inconsapevolezza. Le risorse ci sarebbero eccome. Basterebbe colpire a fondo l’evasione e andare a scoprire in Svizzera dove si nascondo i capitali italiani, anziché far pagare la crisi ai soliti noti. E visto che parliamo di investire nella cultura sarebbe bello che i nostri governanti si andassero a leggere un interessante studio della Banca d’Italia dal titolo Questioni di Economia e Finanza. Dice lo studio che il rendimento dell’investimento culturale “è pari a circa il 9%, un valore superiore a quello ottenibile da investimenti finanziari alternativi, come ad esempio in titoli”. Se il dato è vero, e in genere alla Banca d’Italia sono seri, mi verrebbe da suggerire ai ministri Profumo e Ornaghi di correre oggi stesso in banca e far partire i primi bonifici.

Roberto Faenza