L’angolo di Michele Anselmi | Scritto per “il Secolo XIX”
Lasciamo perdere il parere di Edoardo Perazzi, designato erede universale e “custode della memoria” di Oriana Fallaci. «Quella fiction non sarebbe piaciuta a Oriana» sentenzia il nipote, troppo coinvolto personalmente. E lasciamo perdere pure gli insulti piovuti in rete, anche se non ha proprio torto quell’utente che ha twittato: «Nulla di nuovo sotto il sole. La Rai non è in grado di fare una buona fiction neanche con un personaggio interessante come la Fallaci». Vero è, d’altra parte, che fu la stessa giornalista-scrittrice a consigliare rudemente: «Se vogliono fare i film su di me, che li facciano quando sarò morta». È stata accontentata.
Purtroppo “L’Oriana” non è una riuscita. Nata con le migliori intenzioni, la miniserie in due parti andata in onda lunedì 16 e martedì 17 febbraio su Raiuno dimostra quanto difficile restituire la biografia, umana e professionale, della giornalista fiorentina, così famosa nel mondo da essere identificata solo col nome (anche perché il cognome spesso glielo storpiavano all’estero).
Eppure Fallaci sembrava perfetta per una cine-biografia avventurosa con tanto di marchio Fandango: donna burbera e romantica, fiera nel rivendicare la propria idea di giornalismo sul campo, capace di coraggio e ardimento, rabbia e orgoglio, ma anche tenera, ferita nel profondo, sempre pronta a partire per raccontare, sul filo della passione, un’ingiustizia, una guerra, una protesta, un misfatto, una condizione umana.
Non è tanto la prova di Vittoria Puccini, che certo, benché toscana, deve aver avuto qualche problema nel mettere a fuoco il personaggio con tutte quelle parrucche; sono il copione di Rulli & Petraglia e la regia di Marco Turco a rendere la fiction agiografica e astrale, a tratti pure ridicola, benché non si facciano sconto al noto caratteraccio della Grande Firma. D’accordo che in tv la convenzione delle lingue regna sovrana. Sicché in Vietnam tutti parlano italiano, sia i soldati americani traumatizzati dalla sporca guerra, sia i vietcong condannati a morte; ma poi alcuni dei personaggi sfoderano un accento esotico, da “doppiaggese”, ogni tanto appare qualche sottotitolo, e allora non capisci più nulla. Francamente Maria Rosaria Omaggio era un’Oriana ben più attendibile nel bel film di Wajda su Lech Walesa che hanno visto così in pochi in Italia: per piglio, timbro vocale, supponenza.
Gli ascolti non hanno pagato: la prima puntata è stata vista da 4.425.000 telespettatori, per uno share del 15,93%, sette punti in meno di “L’isola dei famosi”. Ma è il meno per un film che ambiva, anche sul piano della messa in scena e dell’investimento (pare che siano davvero andati in Vietnam, peccato che non si veda), a distaccarsi stilisticamente da un certo canone Rai in materia di biografie, che si parli di santi o preti, di industriali o politici.
Oriana Fallaci non era certo una donna docile, lo scoprì perfino il feroce Khomeini; ma aver fatto del suo carattere spigoloso e ispido il tratto distintivo della storia, salvo poi far partire i violini dell’amore infelice, rende “L’Oriana” una fiction come le altre, poco inventiva e molto ordinaria, pure faticosa da seguire per via delle debordanti interruzioni pubblicitarie.
PS. Fa abbastanza sorridere la copertina di “Sette” del 30 gennaio, dove si vede Vittoria Puccini con elmetto, trecce e divisa militare verde su un elicottero americano negli anni della “sporca guerra” in Vietnam. Il titolo? “Je suis Oriana”.
Michele Anselmi