Vincitore della Settimana della Critica di Venezia 71 e da domani nelle sale per Cineclub Internazionale, Figlio di nessuno di Vuk Rsumovic è un po’ il film di tutti per la portata universale della storia che racconta e per il significato in essa contenuto. Ispirato a una storia vera, e strettamente connesso ai tragici anni Novanta delle guerre jugoslave, un solido esordio alla regia che sottolinea come il cinema balcanico sia ancora legato a doppio filo alla sua ingombrante Storia recente, e come da essa si possa però scovare e trarre storie che fanno riflettere oltre ogni confine geografico.
Belgrado, 1988. In un orfanotrofio viene portato un bambino trovato allo stato brado in un bosco durante una battuta di caccia. Il ragazzo non ha nome, non sa parlare, non sa stare in piedi. È una bestia, non un uomo. Dallo staff dell’istituto e da un coetaneo che se lo prende a cuore, Haris (questo il nome d’origine musulmana imposto dall’anagrafe) viene a fatica educato alla civiltà. Ma nei primi anni Novanta irrompe in Jugoslavia la guerra. Che ne sarà di lui, della sua gioventù, della civiltà conquistata?
A metà strada tra Tarzan e Mowgli, ma molto più violento e selvaggio, Haris (Denis Muric) incarna tutti noi, l’evoluzione dell’uomo da scimmia a bipede a come lo conosciamo oggi. Millenni di storia si condensano in pochi anni, Haris vive l’età del ferro e del bronzo, poi l’epoca moderna, fino a comprendere la differenza tra uomo e animale. Ma la parabola s’infrange nell’incontro/scontro con la guerra, le armi, la violenza di uomini contro uomini. Ed è lì che l’uomo e anche Haris regrediscono. Tanto che anche un lupo, nel finale, non riconosce più quello che un tempo era un suo simile, e lo schifa, lo schiva, si allontana, come a sancire la sua superiorità a chi cammina su due “zampe”. È il potere di uomini su altri uomini a rovinare l’uomo. Haris lo sperimenta sulla propria pelle già col coetaneo Zika, che prima se ne prende cura, poi vorrebbe possederlo come fosse un oggetto. Ecco la bramosia, la proprietà privata direbbe Rousseau in merito a buoni selvaggi. Lo stesso potere è esercitato dalla guerra, e da chi la vuole e decide, su altri uomini, i soldati, ai quali non rimane che sparare, sparare anche a caso, prima di venire colpiti e morire nell’umido di un bosco dimenticato da Dio.
Vuk Rsumovic racconta il tutto senza retorica, senza alcun fare cattedratico né moralistico. La storia (anche quella con la S maiuscola) parla da sola e un significato univoco sgorga dalla sequenza degli eventi con innata fluidità. Al giovane regista serbo interessa l’uomo, come dimostrano i tanti dettagli su mani, piedi, ginocchia del suo protagonista che cresce e cambia. Rsumovic punta quindi su una parzialità della visione, atta però a rendere, con umiltà ed efficacia, il valore sineddotico e universale della storia di Haris.