L’angolo di Michele Anselmi
Fa piacere sentirglielo dire: “Ho scoperto tardivamente che si possono fare film con meno orpelli. Stavolta era meglio che la macchina del cinema facesse un passo indietro”. Così Paolo Sorrentino ospite da Fabio Fazio. E ancora: “Esiste una verità della vita e una verità del cinema: ogni tanto coincidono”. Bravo.
Mercoledì 24 novembre esce in circa 250 sale “È stata la mano di Dio”, poi dal 15 dicembre sarà su Netflix, che coproduce con la società The Apartment di Lorenzo Mieli. C’è tempo, dunque, per vederlo sul grande schermo, e mi auguro che, nonostante la brutta aria che tira per i film italiani, sia un successo. Ripartito dalla Mostra di Venezia con il Gran premio della giuria e il Premio Mastroianni, il film, poi designato dall’Italia per la corsa agli Oscar, segna, a mio vedere, la rinascita artistica di Paolo Sorrentino. Pescando nel proprio vissuto di sfortunato orfano precoce, il regista partenopeo ha realizzato infatti con “È stata la mano di Dio” un film semplice, intenso e profondo, che non “sorrentineggia”, e anzi manda in soffitta tutto quell’apparato esteriore, di forte impronta visiva e di debole sostanza espressiva, che ha contraddistinto il suo cinema e le sue serie tv dopo l’Oscar meritatamente ricevuto per “La grande bellezza”.
Come saprete, il film deve il suo titolo al celebre fallo di mano commesso da Diego Maradona nel 1986 durante una storica partita tra Argentina e Inghilterra; e insieme a una battuta del copione, laddove un vecchio intellettuale fissato col pallone e deluso da tutto si rivolge così al giovane protagonista: “È stato lui che t’ha salvato, è stata la mano di Dio”. Del resto, una frase del goleador che regalò lo scudetto al Napoli campeggia, a mo’ di esergo, prima che tutto cominci: “Ho fatto quello che ho potuto, ma penso di non essere andato così male”.
Vale anche per Sorrentino, naturalmente: a 51 anni e a quattro lustri esatti dal suo esordio con “L’uomo in più”, il vesuviano è tornato a Napoli per ambientarvi interamente un cineromanzo di formazione, che riesce ad essere, allo stesso tempo, autobiografico e universale, sincero e un po’ bugiardo, immerso nelle viscere di quella città unica e capace di parlare a tutti, anche a chi non afferra il dialetto stretto.
Sorrentino, come si diceva, mette via tutto l’armamentario estetizzante del recente passato, tranne forse che nel prologo: una giovane donna dai seni prosperosi, sotto il sottile abito bianco che fa immaginare tutto, viene invitata da un signore d’altri tempi, modi cortesi e occhi cerulei, il quale dice d’essere San Gennaro. Da tutti desiderata, lei non riesce a restare incinta del marito, ma forse l’apparizione di un “monaciello”, leggendario spiritello del folclore locale, potrà aiutarla a diventare madre. E un altro “monaciello” si affaccia nell’epilogo, a chiudere il cerchio, sorridente e riccioluto come Maradona: e sarà un segno di buon augurio per chi sta cercando di coronare un altro sogno.
Non ci vuole molto a capire che Fabietto Schisa, diciassettenne introverso e gentile, ancora vergine, con le cuffie del walkman sempre nelle orecchie, incarna Sorrentino da giovane. Siamo tra il 1984 e il 1986, appunto nel biennio che vide le mirabolanti gesta di Maradona a Napoli; ma l’arrivo del calciatore, notoriamente venerato dal regista, sembra lo spunto per parlare d’altro, di una certa Napoli piccolo borghese che gravita attorno alla famiglia Schisa.
Il ritratto è corale e colorito, tra aneddoti buffi e bozzetti grotteschi, pranzi campestri e nudi di donna, anche se affiora presto il senso di una minaccia, poi tragedia vera, che muterà definitivamente la vita del giovanotto, lasciandogli intravvedere un possibile domani. “La realtà non mi piace più, è scadente. Ecco perché voglio fare il cinema” scandisce Fabio, e naturalmente è Sorrentino a parlare.
Lungo due ore e dieci minuti, scandito da una narrazione classica, sobria, non compiaciuta sul piano fotografico (brava Daria D’Antonio), tesa a condividere con lo spettatore il senso dei ricordi e la cognizione del dolore, “È stata la mano di Dio” è anche un film sul cinema, trapunto quindi di riferimenti affettuosi. Si vede la videocassetta di “C’era una volta in America”, si sfotticchia un po’ Zeffirelli alle prese con “Callas Forever”, si sente la vocina di Fellini mentre fa i provini in città, si omaggia “Le vie del Signore sono finite” di Troisi; soprattutto, nel dialogo serrato in sottofinale, viene celebrato lo spirito indocile del regista Antonio Capuano, oggi 80 enne, col quale nel 1998 lo stesso Sorrentino avrebbe scritto il film a episodi “Polvere di Napoli”.
Un po’ si “fellineggia”, a tratti si respira qualcosa del mai realizzato “Moraldo in città” a lungo meditato dal gran riminese; ma dentro una cifra, tra poetica e antropologica, mai cinica o solo esornativa, che forse deve qualcosa a “Ferito a morte” di Raffaele La Capria e certamente al Pino Daniele di “Napule è”, espressamente citato nel finale. Fulminante anche l’apparizione notturna nella piazzetta di Capri del miliardario Adnan Khashoggi insieme a una sventolona in minigonna,
Il ricco cast si mette bene al servizio del clima generale di un film che invita alla meditazione sulla natura umana e le strettoie dell’esistenza: il giovane Filippo Scotti incarna Fabio, Toni Servillo e Teresa Saponangelo sono i genitori, Luisa Ranieri la “scandalosa” zia Patrizia, Betty Pedrazzi la baronessa del piano di sopra, poi ci sono Enzo Decaro, Renato Carpentieri, Massimiliano Gallo, Roberto De Francesco, Lino Musella e infiniti altri.
Evocando un motto di Cesare Garboli, il regista confessa di aver fatto questo film con l’intenzione di spiegare ai suoi figli “perché sono così schivo e silenzioso”. In realtà non mi pare tale: Sorrentino è dotato di buona favella e non risulta un tipo appartato. Come attesta anche la recente polemica nei confronti del quotidiano francese “Le Figaro”, forse incauto nel definire Napoli “una città da Terzo mondo d’Europa”.
Michele Anselmi