Sto scrivendo un libro, che pubblicherò online nei prossimi mesi. Si chiama FiniRai ed è una crudele cavalcata nel futuro della televisione. L’azienda pubblica sta per essere riformata dal governo, ma da quello che si sa rischia un salto nel buio. Già l’annuncio di far pagare il canone nella bolletta elettrica è abortito ancor prima di essere varato, sollevando critiche da ogni parte. Si aspettano le prossime mosse. L’azienda pubblica ha svolto per decenni un importante ruolo di diffusione del sapere e di intrattenimento, attestandosi sovrana rispetto all’universo della comunicazione. Dove ha fallito è stato nell’ambito politico, schierandosi sempre a fianco del potere e diventandone il megafono in termini più servili di quanto richiesto. Nonostante i dirigenti di prima fascia dell’azienda e i responsabili dei telegiornali siano stati nominati per affiliazione politica nel 90% dei casi, la maggioranza dei quadri intermedi, dei giornalisti e dei redattori ha dimostrato una professionalità e un desiderio di indipendenza su cui l’azienda si è retta per decenni. Negli ultimi tempi questo equilibrio si è frantumato.
L’innovazione tecnologica e la discesa in campo di nuovi soggetti hanno espresso un desiderio di pluralismo che gli spettatori avvertono come un loro diritto. In tale contesto è esplosa l’insofferenza per un soffocamento politico non più tollerabile. Tutti gli osservatori sono concordi nel ritenere l’azienda televisiva pubblica uno specchio fedele del paese. È indubbio che l’Italia negli ultimi decenni ha visto restringersi i propri valori, se, come è vero, gli indicatori internazionali ci pongono nei gradini più bassi per indipendenza, moralità, scolarità, cultura. Abbiamo addirittura conquistato il primo posto nell’Index of Ignorance, stilato dall’istituto di sondaggi inglese Ipsos Mori, condotto nei paesi più importanti. La Rai, essendo fatta di donne e uomini italiani si è perfettamente adeguata, sia scivolando verso il basso, sia finendo per somigliare sempre di più alle reti private, il cui fine dichiarato non è quello di effettuare un servizio pubblico. Questa dimensione ha creato un solco preoccupante e un deficit culturale di tali proporzioni che, ove perdurasse, porterebbe inesorabilmente all’estinzione dell’azienda. Ecco perché diventa importante provocare un discorso che metta in discussione il senso stesso del servizio pubblico, con tutti i corollari che ne conseguono.
Con i suoi attuali 14 canali, il servizio pubblico potrebbe giocare la carta dell’innovazione e offrire una gamma di contenuti più articolata di tutti gli altri competitor. Anche con i suoi difetti, l’azienda resta pur sempre il “brand” più riconoscibile, forte di un patrimonio accumulato nel corso di oltre sessant’anni. Basti pensare alla ricchezza archiviata nelle sue teche, che conservano la storia contemporanea del Paese. Negli ultimi anni però la Rai ha compiuto errori non da poco, come ad esempio la perdita di identità delle singole reti, che hanno smarrito la propria. Clamorosa è la discesa di Rai 2: partita da una audience prossima al 15%, ha perduto quasi dieci punti nel giro di poco tempo, precipitando nei dintorni del 4%. Lo stesso dicasi di Rai 3, che ha cercato di innovare senza riuscirci, spesso costretta a cancellare le novità dopo poche serate di programmazione. Resiste Rai 1, ma non è sufficiente. Come vedremo più avanti, drammatico è il fardello di un personale pletorico, che non ha saputo riqualificarsi né aggiornarsi. Si è finito per imitare il calcio. I club hanno comprato i campioni all’estero, con punte del 73%, invece di crescere nuove leve. Risultato: la nazionale cade a pezzi.
Roberto Faenza