“Flee” è un film d’animazione in grado di toccare le corde dell’anima. Un racconto diverso, in prima persona, su cosa abbia significato per il protagonista, Amin Nawabi, profugo omosessuale, lasciare la sua terra natia, l’Afghanistan degli anni Novanta, e intraprendere il lungo viaggio della speranza che lo porterà in Danimarca, ma solo dopo un percorso fatto tanto di incontri quanto di addii che segneranno la sua vita e il suo cuore. Ripercorreremo attraverso le sue parole, e la voce prestata da Riz Ahmed, questo viaggio fino a vederlo diventare accademico danese, amante della vita, e compagno amorevole di Kasper, ma con molte domande irrisolte sui rapporti e sulla vita stessa. La particolarità di “Flee” è l’essere una commistione di tre generi cinematografici: il film di animazione, il documentario e la biografia, in una fusione che coinvolge ed emoziona. L’opera, nelle sale italiane dal 10 marzo, ha ottenuto tre candidature ai premi Oscar, una ai Golden Globes e due ai BAFTA e vanta una collezione di riconoscimenti in tutto il mondo.

“Flee” rappresenta la messa su schermo della redenzione del protagonista trentaseienne che, ormai adulto, si spoglia delle zavorre della sua esistenza; riuscirà a farlo proprio grazie alla presenza della telecamera, filtro tra lui e il resto del mondo che viene poi intensificato dal disegno animato. Così Amin, per la prima volta, racconta la sua storia, dal sentirsi un bambino diverso alla fuga a Mosca. Le confidenze delle sue vicende saranno il fulcro del racconto, del quale noi, come pubblico, siamo chiamati a essere testimoni: lo spettatore ha un ruolo fondamentale nel film di Jonas Poher Rasmussen, in quanto custode del segreto del protagonista. Si comprende fin da subito, quando lo vediamo nelle prime immagini posizionarsi su un tappeto arabesco che è un’esplosione di colori. La voce di Rasmussen posiziona l’inquadratura mezzobusto di Amin, che ora è centrato per noi; l’opera può iniziare.

La tecnica del disegno animato realistico impiegata riesce a raccontare e a trasmettere le emozioni dell’animo del protagonista, senza pietismi e senza portare via drammaticità all’opera; anzi, quest’ultima viene elevata, lavorando per contrasti e modulandosi su quanto viene raccontato: alcune delle scene più drammatiche ed emotivamente sconvolgenti sono rappresentate graficamente da figure in bianco e nero, stilizzate e senza volto, in cui le voci sono spinte alla massima potenza. Una menzione particolare andrebbe riservata proprio ai suoni, anch’essi protagonisti assoluti ed estremamente realistici, e alle musiche (memorabile è la scena sulle note di “Take On Me”). Il realismo, perseguito così in ogni elemento, mantiene forte il collegamento con la biografia: è anche il caso dei fotogrammi sparsi, compreso l’ultimo, che tengono ben saldi nel genere documentaristico. Il regista presenta così qualcosa di unico nel panorama cinematografico internazionale; riducendo l’opera all’essenzialità e lavorando per sottrazione, riesce nella trasposizione stilizzata – ma non per questo, esemplificata – di uno dei racconti più drammatici che l’uomo possa testimoniare. Dal 10 marzo in sala.

Chiara Fedeli