Nel 1985 Torre Annunziata era il serbatoio ideale per la malavita. Sessantamila persone e una produttività legale pressoché azzerata: altissimo numero di tossicodipendenti, disoccupati e di iscrizioni al collocamento, centro nevralgico del contrabbando e del traffico di droga. A comandare il boss emergente Valentino Gionta, presto troppo potente e quindi in conflitto con i Clan Bardellino e Nuvoletta.
A indagare sulla realtà di Torre c’era un giovane cronista, Giancarlo Siani. Napoletano figlio del Vomero, ma sceso nei bassifondi per cercare di capire e raccontare i meccanismi del potere illegale, e le collusioni col potere legale. Per questa sua curiosità, per essersi spinto oltre, per aver fatto il suo mestiere, fu ammazzato in un agguato sotto casa il 23 settembre del 1985.
Vicenda esemplare quella di Siani, che racconta di un “idealismo ordinario”, quotidiano, non forcaiolo. Utile quindi a risollevare la fibra morale di un paese che, purtroppo, sembra aver necessariamente bisogno di martiri e catastrofi per tirare fuori il meglio. E utile a confermare la vena di un cinema nostrano che sembra svincolarsi dall’autorialità “due camere e cucina” per tornare a raccontare l’Italia.
Girato in simbiosi con i luoghi reali della vicenda, tanto fatiscenti quanto affascinanti sul grande schermo, un Marco Risi in buonissima forma mette in fila alcuni grandi momenti a livello di regia (su tutti la mattanza tra camorristi in pieno centro di Torre), ed è una buona notizia dopo l’assenza di misura di La mano di Dio. Pecca, però, nel concentrarsi troppo sul contesto di dinamiche mafiose (ampiamente metabolizzate dallo spettatore) e meno sulla persona Siani, nonostante possa contare su un’interpretazione da grande attore come quella di Libero De Rienzo, che incarna alla perfezione la mitezza e l’umiltà del personaggio e si conferma talento notevole (tanto quanto restio a concedersi).
C’è quello che deve esserci in Fortapàsc: racconto, passione civile, buoni momenti di cinema. Forse è solo tutto troppo ingabbiato nelle maglie drammaturgiche di una sceneggiatura che non vuole osare. Oppure – e non è colpa sua visto che il progetto era pronto da anni ed è stato rimandato più volte – il film di Risi “sconta” solo il fatto di arrivare dopo Gomorra di Matteo Garrone, film che ha fatto deflagrare l’immaginario di genere relativo alla malavita organizzata. Film che alle regole di una corretta sceneggiatura anteponeva la forza audiovisiva pura.