L’angolo di Michele Anselmi

Teorizza il cineasta esordiente Nicolangelo Gelormini, 43 anni, napoletano, presentando il suo film “Fortuna”, da oggi nelle sale con I Wonder Pictures: “La sinestesia è un concetto caro all’arte. E il Cinema (la maiuscola è sua, ndr), che all’arte ha strappato il settimo posto, ne ha ereditato i proponimenti. La via del racconto non si è fermata al volto della protagonista, ma si è addentrata nei suoi occhi, nella sua testa, il suo corpo, il suo sentire”. Vabbè. Per chi non sapesse, con il termine sinestesia si fa riferimento a quelle situazioni “in cui una stimolazione uditiva, olfattiva, tattile o visiva è percepita come due eventi sensoriali distinti ma conviventi”. Ne discende che il film, scritto con Massimiliano Virgilio, è pensato e costruito in modo da far provare allo spettatore “gli stessi sentimenti di Fortuna”.
Ci riesce? Secondo me no. Va bene spiegare solo sui titoli di coda che la vicenda narrata fa riferimento a un atroce fatto di cronaca accaduto nel 2014 dalle parti del quartiere Parco Verde di Caivano, a nord di Napoli; ma “l’infermo imprigionato in questo evento così indicibile e nefasto”, per dirla ancora col regista, proprio non riesce a liberarsi nel corso dei quasi 110 minuti di film, a causa di una messa in scena compiaciuta, estetizzante, artificiosa, tesa a suggerire “una percezione” più che “una cognizione”, s’intende partendo da una presunta superiorità morale dello sguardo esercitato sugli eventi criminali.
Innanzitutto i colori, scelti non a caso, imposti ossessivamente. Da una parte tutte le gradazioni del blu (dal celeste chiaro all’azzurro denso), esibite in ogni inquadratura, che siano oggetti, abiti, muri, bordi, automobili, a evocare una sorta di universo parallelo, forse immaginato; dall’altro alcune variazioni di arancione, sempre mischiate al blu, a portarci – se ho capito bene – su un piano più realistico, sordido, feroce, tra adulti che festeggiano sulla terrazza condominiale di un palazzo di periferia saltando su enormi tappeti elastici, custodendo segreti sessuali inconfessabili.
In mezzo c’è lei, Nancy, una bambina enigmatica, dai capelli folti e lunghi, che sembra essersi astratta dal mondo circostante, murata viva in un mutismo interrotto solo nel rapporto con due suoi coetanei, tutti e tre presi di mira, sempre su quella terrazza, da una coppia di bulletti più grandicelli. Nei loro discorsi Nancy, Anna e Leonardo alludono a un misterioso pianeta Tabbis sul quale volare, ma ben più concreti sembrano i Giganti neri che si aggirano nei dintorni, pronti a ghermire i bambini, annunciati da piccoli fiori blu. Nancy, il cui vero nome è Fortuna, comincia a vedere quei fiorellini e noi intuiamo, forse, che qualcosa di orribile sta succedendo da quelle parti.
Naturalmente, Gelormini complica per bene le cose, in modo da suggerire, in una chiave da favola “dark” nonostante l’esplosione cromatica, lo sdoppiamento mentale della fanciulla, la sua “sindrome da disorientamento temporale”, il suo ritrarsi in un mondo più immaginato che vissuto, nel quale Nancy/Fortuna confonde la mamma vera, sbrigativa e imperiosa, con la psicologa, evanescente e scostante, presso la quale si cura.
Non avete capito nulla? In effetti il film si propone come un viaggio mentale, anzi direi un’esperienza visiva e sonora, forse sensoriale, dove il tono delle musiche elettroniche, simili al ronzio degli acufeni, fa tutt’uno con l’esibita tavolozza dei colori, la predilezione per inquadrature ardite e l’affacciarsi progressivo di facce poco rassicuranti, anzi decisamente predatorie (in tv si parla di lupi).
Tutto molto di testa, quindi incomprensibile allo spettatore, che forse vorrebbe comprendere meglio che cosa sta accadendo davvero in quel condominio lugubre e affollato, pure impermeabile alle prediche di un prete. Valeria Golino, Pina Turco, Libero De Rienzo, più i piccoli Cristina Magnotti, Denise Aisler e Leonardo Russo si adeguano disciplinatamente al progetto estetico di Gelormini, ma un po’ con l’aria chi pensa, recitando: “Che ci faccio qui?”.

Michele Anselmi