L’angolo di Michele Anselmi

Fossi uno sceneggiatore professionista, be’ io vorrei essere Taylor Sheridan. Cinquantadue anni, texano di Cranfills Gap, pure cowboy, già attore in “Veronica Mars” e “Sons of Anarchy”, poi scrittore di storie da cinema e infine regista egli stesso, Sheridan vive immerso, perlopiù, in un mondo che inclina al “selvaggio West”, ma senza nostalgie rassicuranti, con incursioni nell’America moderna. Per molti è solo l’inventore di “Yellowstone”, si vede su Sky, e certo la serie, giunta ora alla quinta stagione, gli ha dato un potere contrattuale fino a pochi anni fa impensabile. Eppure porta la sua firma la sceneggiatura di “Sicario” per Denis Villeneuve, di “Soldado” e “Senza rimorso” per il nostro Stefano Sollima, di “Hell Or High Water” per David Mackenzie. Ma mi sembrano, diciamo, copioni minori rispetto a ciò che nel 2017 già dimostrò di saper fare, come regista, girando il poliziesco invernale “I segreti di Wind River”, con Jeremy Renner, forse l’ultimo film prodotto da Harvey Weinstein prima che scoppiasse lo scandalo sessuale che l’ha portato in galera (per fortuna).
“Yellowstone” ha permesso a Sheridan di moltiplicare i progetti per le piattaforme digitali, perlopiù in compagnia di attori fidati, sono un po’ sempre gli stessi, e di un co-regista di vaglia come Ben Richardson, pure ottimo direttore della fotografia. Qualche titolo? I due antefatti di “Yellowstone”, che sono “1883” e “1923”, entrambi ora su Paramount+; e sempre su quella piattaforma si possono vedere due miniserie di ambientazione contemporanea come “Tulsa King” con Sylvester Stallone e “The Mayor of Kingstown” col prediletto Jeremy Renner (presto arriva la seconda stagione, anche se l’attore ha avuto seri guai di salute, trenta ossa spezzate, cercando di salvare il nipote con il suo spazzaneve).
Tutte queste serie sono scritte da lui, a volte non da solo, ma tutti portano il suo inconfondibile “imprinting”: che è un mix di epopea americana e riflessione sulla violenza, di dedizione assoluta alle vite di quelli che noi chiamiamo indiani e denuncia di un certa avidità capitalistica, di senso di colpa e logica di sopravvivenza (nel caso di “Tulsa King” con una punta di beffarda ironia).
Giustamente ha messo da parte il cinema per il grande schermo, specie dopo il deludente “Quelli che mi vogliono morto” girato con Angelina Jolie nel 2021; è nella dimensione del piccolo schermo che Sheridan, pur sacerdote dei grandi spazi vergini e della natura ancora incontaminata, dà il meglio di sé, irrorando l’azione, anche feroce, con struggenti meditazioni sulla natura umana, con echi di Henry David Thoreau e Ralph Waldo Emerson (forse).
Le sue voci narranti, ad esempio quella della giovane e ribelle Elsa Dutton in “1883”, non mi sembrano mai pleonastiche, insomma furbizie drammaturgiche tese al ricatto sentimentale: sono semmai lo sguardo dell’autore e insieme la cornice “filosofica”, se la parola altisonante non infastidisce, entro la quale far muovere i suoi personaggi spesso perdenti, disperati, vulnerabili.

Michele Anselmi