La Mostra di Michele Anselmi per Cinemonitor (7)
George Bernard Shaw teorizzava che “inglesi e americani sono due popoli divisi dalla stessa lingua”. Vero, probabilmente. E tuttavia la lingua madre aiuta se dalla vecchia Europa si va negli Stati Uniti per girarvi un film di ambientazione americana. Ogni riferimento a Paolo Virzì e al suo “The Leisure Seeker” non è casuale. La controprova viene da “Three Billboards Outside Ebbing, Missouri”, scritto e diretto dal drammaturgo londinese, sia pure figlio di irlandesi, Martin McDonagh. Classe 1970, ha diretto film bizzarri come “In Bruges” e “7 psicopatici”, ma questo nuovo, dal titolo ironicamente descrittivo, è il suo migliore. Bene ha fatto Alberto Barbera a prenderlo in concorso alla 74ª Mostra di Venezia, piazzandolo in una giornata non particolarmente felice.
Siamo appunto a Ebbing, cittadina nello Stato del Missouri (confederato all’epoca della Guerra Civile). Dove, estenuata dal disinteresse della polizia riguardo alla morte atroce della figlia, rapita, stuprata e bruciata, la tosta Mildred Hayes decide di noleggiare per un anno tre enormi cartelloni pubblicitari dismessi. Lì affigge, su fondo rosso, un’unica scritta divisa per tre che suona come un atto d’accusa nei confronti dello stimato sceriffo Willoughby. La donna, pure mollata dal marito per una diciannovenne, è rabbiosa, esacerbata, esige di riaprire le indagini ferme da sette mesi. Come un caterpillar, Mildred non guarda in faccia a niente e nessuno, neanche il tumore al pancreas che sta uccidendo Willoughby sembra fermarla. E intanto, nell’intrecciarsi di eventi sempre più minacciosi, tra suicidi, incendi e minacce, anche il poliziotto più fesso del posto, tal Dixon, sembra finalmente deciso a cercare la verità.
“Three Billboards Outside Ebbing, Missouri” non è solo ben scritto e recitato. Lo spunto della vendetta materna, tipico di un certo cinema americano di svelto consumo, viene maneggiato da McDonagh con vivo senso dello spettacolo e densa ambiguità etica. Il guscio è da commedia nera, con personaggi buffi, battute fulminanti e rigurgiti “suprematisti”, ma rispetto a “Suburbicon” di Clooney tutto è tenuto insieme meglio, senza affondi farseschi, in bilico tra apologo morale e ballata sudista, in linea con il dilemma che attraversa un po’ tutta la vicenda. Quale? Ogni azione, perfino se commessa a fin di bene, rischia di produrre conseguenze inattese, pure nuove ingiustizie.
Francis McDormand è prodigiosa, come sempre, nel dare corpo a questa madre scorticata e risoluta, molto country, dalla lingua tagliente e lesta a menare le mani. Ma non sono da meno Woody Harrelson, finalmente toccante, e Sam Rockwell, al solito survoltato, nei ruoli dello sceriffo malato e del vice razzista. Le note accattivanti di “The Night They Drove Old Dixie Down” ci ricordano in che America siamo. Anche se il finale aperto istilla nello spettatore un palpito di ragionevole speranza sulla natura umana.
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Senza speranza, nel senso del risultato artistico, è invece il secondo film tricolore sceso in competizione, dopo “The Leisure Seeker”. Si chiama “Una famiglia”, è firmato dal catanese Sebastiano Riso, 34 anni, fattosi notare col precedente “Più buio di mezzanotte”. Non so se sia rubricabile sotto la loffia etichetta “film da festival”, ma so che “Una famiglia” riassume tutti i difetti di un certo cinema d’autore all’italiana: ridicolo involontario, scene madri urlate, balletti in salotto, dialoghi inconsistenti, sospensioni pensose, fotografia livida. Micaela Ramazzotti e Patrick Bruel sono Maria e Vincent, una coppia abile nel mimetizzarsi che si nasconde in una periferia romana desolata e anonima. Il loro “lavoro”? Mettono al mondo figli che vendono per 50 mila euro, naturalmente al di fuori di ogni regola, a coppie sterili pronte anche a indebitarsi e far mutui. Lei, vittima e complice insieme, è sfibrata fisicamente, vorrebbe smettere, infatti si fa impiantare di nascosto la spirale dal ginecologo che dirige il traffico; lui, al quale nulla sfugge, è una specie di “padre-padrone” metà orco diabolico e metà amante caliente. Tutto precipita quando due ricchi omosessuali, s’intende attori, si faranno sotto per coronare il loro sogno di paternità.
Il film, pare nato da un’esperienza personale vissuta dal regista, non intende essere un instant-movie sui temi dell’utero in affitto, delle leggi retrograde e delle adozioni illegali. L’ambizione è più alta: Riso racconta un estremo dramma dei sentimenti, una perversa dinamica di coppia che pesca nella cronaca per sublimarsi nella tragedia. Bruel, in Francia, è un cantante alla moda, rassicurante: quindi deve essergli piaciuta l’idea di farsi “mostrizzare”. Ramazzotti, sempre più scarnificata, dovrebbe mangiare un po’ di più e mutare espressione. È una brava attrice, non ci piove, ma non sempre sceglie i copioni giusti.
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Quanto al terzo titolo in competizione, “EX LIBRIS – The New York Public Library”, torrenziale documentario dell’americano Frederick Wiseman, confesso di aver resistito poco più di un’ora in sala (l’intera faccenda dura 197 minuti). Bostoniano del 1930, Oscar onorario, regista eclettico e venerato, Wiseman realizza un esauriente reportage su quella che è considerata “una delle più grandi istituzioni del sapere al mondo”, appunto la Biblioteca pubblica di New York. Diciotto milioni di utenti, 32 milioni di visitatori on line, un luogo di accoglienza, scambio culturale, confronto religioso, creatività artistica. Lo sguardo del regista è rigoroso, il risultato piuttosto noioso. Il fuggi fuggi è stato massiccio, ma chi ha resistito fino in fondo ne parla molto bene. Ci fidiamo. Però gli si faceva un piacere a metterlo fuori concorso.
Michele Anselmi