Melva, una madre single afroamericana con due figli, uno dei quali autistico, impossibilitata ad avere un’adeguata assistenza sociale per lui, si rivolge ad Abe, misterioso “curatore”, unto dal Signore, che nella parrocchia pentecostale tocca le teste dei sofferenti guarendoli magicamente. Una trama semplicissima, forse perché ispirata a un fatto di cronaca (nera) purtroppo vero, che dà occasione al giovane cineasta Mahaffy di firmare un lungometraggio atroce che, pur avendo l’apparenza di un documentario girato molto bene, sembra attingere quasi dal genere horror degli esorcismi. Gli eccellenti attori professionisti Harewood e Findley, insieme al ragazzino, sono strumenti di finzione perfetti per ritrarre una qualche remota realtà sociale sommersa nella desolazione statunitense, che ci sembra di aver già assaporato ultimamente nel Minervini di Louisiana. La comunità di colore, unico vero stralcio di realtà che consegna al film la componente più docu a livello materiale, viene tallonata dallo sguardo di una cinepresa fredda ed entomologica, ma al contempo critica.
Le pause dalla tragica narrazione immergono la macchina da presa talmente nella bruttura umana da tradursi anche nel paesaggio, un habitat provinciale fatiscente, con piscine ed edifici abbandonati, luridi e sbranati su di una delle due facciate, quasi come fossero dei paesaggi reduci da un disastro ambientale o post-bellico. Mahaffy non dona mai un momento di respiro neanche quando esce dagli interni, li vuole mostrare anche quando vediamo le case e i palazzi dall’esterno. Quando siamo dentro, invece, il suo occhio si fa intimo, con piani ravvicinati, sonoro ovattato e allucinato, sotto la pelle, come in una possessione demoniaca che si concretizza nell’epilogo, in una sequenza straziante ed infernale.
Il curatore Abe ha un passato da criminale, ma non è chiaro. Espia i suoi peccati nella parrocchia, dove passa il suo tempo libero dal lavoro come bidello in una scuola con le toilette imbrattate di sterco umano. Viene visto come un santo, ma forse è lui l’unico demonio che vanno cacciando questi fervidi apostoli del ghetto. Al tocco di Abe le persone svengono, neanche si trattasse del Dalai Lama. Solo un collega a lavoro lo prende in giro. Abe, pur essendo servo di Dio, porta una colpa con sé di cui non ci è dato sapere nulla e nel finale se ne porterà sulla schiena un’altra ancora più terribile, sempre senza ribellarsi. Mahaffy ci immerge con forza in una storia a senso unico, all’interno di una comunità quasi esclusiva, auto-ghettizzata, assillando lo spettatore fino alla fine. C’è qualcosa della tradizione tribale, ma anche di irrazionale come il tipico e cieco fondamentalismo da profondo Sud (e non solo). L’assurdo e il reale si uniscono in questo ipnotico film senza speranza, dove l’unico difetto sembra il non dare abbastanza voce in capitolo al bambino, non mostrandoci così la complessità di una malattia importante e trascurata come l’autismo.
Free in Deed esce vincitore dal concorso Orizzonti alla 72esima Mostra del Cinema di Venezia. Una pellicola poderosa, meritatamente premiata, di cui potete trovare ancora per qualche giorno la versione streaming su My Movies Live, la nuova offerta on demand tutta italiana che sta portando il cinema di qualità delle sale da festival anche sugli schermi di casa a prezzi molto accessibili.
Furio Spinosi