L’angolo di Michele Anselmi | Scritto per Cinemonitor

Già il titolo lasciato in inglese, “Free State of Jones”, non invoglia, per quanto suona indecifrabile, essendo Jones non il nome di un uomo ma di una contea del Mississippi. Per di più c’è di mezzo la Guerra civile americana (1861-1865), in Italia chiamata “di secessione”, che notoriamente non attira granché al cinema, specie da noi, a meno che non sia Tarantino ad evocarla/prefigurarla nel suo “Django”.
Tuttavia merita d’essere visto il film di Gary Ross che esce giovedì 1° dicembre, targato 01-Raicinema, dopo l’anteprima al festival di Torino. Anche se molti critici si sono dimostrati poco interessati: sia alla vicenda storica sia allo stile adottato. Magari sbaglia il sottoscritto, invece, per eccesso di interesse. Ne riparliamo, se vi va, a film visto.
Una cosa balza subito all’occhio. Ci sono voluti ingenti capitali cinesi per produrre questo kolossal interpretato dall’eclettico divo Matthew McConaughey con barbone incolto, capelli sporchi e abiti laceri. Naturalmente per farlo assomigliare al vero Newton “Newt” Knight, un agricoltore del Mississippi, con passato da fabbro e maniscalco, che all’inizio del film – siamo nel 1863, quando già la guerra volge al peggio per la Confederazione sudista – si barcamena sui campi di battaglia come infermiere/portantino cercando di salvare più vite che può.
«Sono stanco di combattere per il loro dannato cotone» protesta dopo ogni mattanza, anche perché deve fare i conti con assurde regole di classe: gli ufficiali sono curati prima dei soldati semplici; chi possiede “20 negri”, cioè schiavi, sfugge tranquillamente alla coscrizione; mentre nelle retrovie i contadini sono ridotti alla fame, depredati e privati di tutto, anche del granturco, per foraggiare le truppe del generale Lee.
In questo contesto devastante, quasi da Repubblica di Salò prima della resa, Knight diserta e torna a casa dalla moglie e dal figlio, giusto in tempo per ritrovarsi ricercato, nel mirino della milizia, dopo aver aiutato una donna e i suoi figli ridotti alla fame.
“Free State of Jones”, partendo da un episodio storico poco noto ma fortemente simbolico recuperato dal regista-sceneggiatore, sbriciola una certa retorica hollywoodiana attorno alla Guerra civile, vista come un’eroica sfida tra greci/nordisti e troiani /sudisti, «davanti alla quale è facile sentirsi troiani e piangere Ettore», come scrive l’americanista Tiziano Bonazzi su “la Lettura”. Il film rievoca, nella misura lunga dei 140 minuti, come quel contadino sudista braccato dai suoi si mise alla testa di una rivolta senza precedenti contro l’esercito confederato: perché a combatterla furono disertori come lui, schiavi scappati nelle paludi e povera gente bianca disperata. Ecco “lo Stato libero di Jones” richiamato dal titolo, una sofferta utopia “biracial”, fatta di “negri bianchi”, che andò avanti per una decina d’anni, finché tutto fu normalizzato col sostegno dell’Unione vittoriosa.
Il film è molto accurato nella ricostruzione storica: abiti, armi, arredi, scenografie, unghie sporche e denti gialli, musiche (da “Beautiful Dreamer” a “Soldier’s Joy”); e per nulla compiacente o rassicurante, nonostante qualche cedimento retorico che pure ci sta.
Knight, tra l’altro, violò il più incrostato tabù sudista, sposando in seconde nozze una ex schiava nera, Rachel, da cui ebbe altri figli, nella riprovazione generale. Tanto è vero che, come mostra il film, ben 85 anni dopo il pronipote Davis Knight, all’apparenza bianco ma considerato nero “per un ottavo”, fu oggetto di un processo insensato con l’accusa di aver sposato una donna bianca come lui.
Naturalmente “Free State of Jones” è brutale, feroce, non addolcisce nulla, dalle amputazioni negli ospedali da campo ai linciaggi perpetrati dal Ku-Klux-Klan, e tuttavia l’insistenza appare giustificata dagli eventi, dalla logica infame di quella guerra fratricida che continuò in altre forme. Matthew McCounaghey e Gugu Mbatha-Raw sono, appunto, “Newt” e Rachel, così simili fisicamente alle fotografie d’epoca. Se trovate la versione in inglese con i sottotitoli, è meglio: perché nessun doppiatore, per quanto bravo, potrà restituire il suono inconfondibile della parlata sudista, il cosiddetto “drawl”.

Michele Anselmi