Nel catalogo di Shatter Edizioni, “Frontiers – Il cinema horror franco-belga degli anni Zero” analizza quel cinema horror franco-belga del Terzo Millennio che il critico James Quandt ha definito “New French Extremity”. Abbiamo incontrato il critico Fabio Zanello che ha curato il volume in cui compaiono saggi di Aurora Auteri, Gian Luca Castoldi, Danilo Arona, Rudy Salvagnini, Francesco Saverio Marzaduri, Davide Ottini, Michele Raga, Elisa Torsiello.

“Frontiers – Il cinema horror franco-belga degli anni Zero” ha le carte in regola per essere uno di quelle raccolte di saggi che durano nel tempo, scommettendo sul filo nero-rosso che accomuna cineasti e esperienze produttive tra loro abbastanza eterogenei. Possiamo parlare del progetto pubblicato per Shatter?
Fabio Zanello: Infatti il libro è stato concepito proprio per durare nel tempo e il destino ci ha supportato, soprattutto quando “Titane” di Julia Ducournau ha trionfato a Cannes 2021, ottenendo la Palma d’oro, forse il premio più ambito. Vittoria epocale, in quanto non c’è stata solo la parità di genere ma ha vinto la “New French Extremity”, che in patria non è apprezzata dalla critica come i film di registi più festivalieri. In precedenza io e i miei collaboratori abbiamo percepito che nel giro di un decennio si era delineato un movimento cinematografico e ci è sembrato più che legittimo scandagliarlo in profondità per l’editore Shatter. L’idea di lavorare ad un volume come questo nasce pertanto dall’esigenza di trasferire in forma critica alcune riflessioni e, soprattutto, alcune ossessioni che abitavano in noi da qualche tempo. Abbiamo tentato di andare oltre, di studiare un altro cinema francese, che ha poco da spartire con la Nouvelle Vague o il polar. Autori come Jean Rollin e Georges Franju, spesso dimenticati dai manuali specialistici, che hanno indicato a questa cinematografia una via all’horror erano attivi già ai tempi di superpotenze come Godard, Truffaut, Resnais e Chabrol.

Se la scelta dei profili di Gens, Laugier, Bustillo & Maury, Aja, Palud & Moreau, Du Welz sembra quasi obbligata, risulta più singolare trovare inclusi cineasti più coccolati dalla critica e forse più tradizionalmente “autori” come Gaspar Noé, Bertrand Bonello, François Ozon o Claire Denis. Qual è, in breve, il coefficiente che accomuna le due schiere?
F.Z. Trovo che in alcuni film, i registi trattati riescono a intercettare gli umori profondi del corpo sociale e a dar corpo a tutta una serie di stati emotivi palpabili nell’aria: trasformano reietti, assassini seriali, emarginati in una specie di vendicatori nemesiaci dell’ingiustizia, che permea la nostra società. Sono operazioni molto coraggiose: la cosa interessante è che questi film hanno una loro forma, hanno la capacità di trasformare in artefatti visuali queste emozioni.
Ovviamente la contestualizzazione di stilemi e tematiche dell’horror e quindi ciò che ha reso possibile l’inclusione nel saggio di registi come Gaspar Noé, Bertrand Bonello, François Ozon, Bertrand Mandico o Claire Denis, la cui forza è anche quella, come è noto, di essere “incasellabili”, è stato il deragliamento episodico verso il genere delle loro messinscene. Se poi loro nelle interviste dichiarano o meno ascendenze cinefile nei confronti del cinema horror, questo è un altro discorso. Indubbiamente il fatto che Dario Argento reciti il ruolo principale in “Vortex” di Gaspar Noé, è indicativo della stima, che il regista nutre verso il nostro mago del brivido, questo si chiama puro pragmatismo, migliore di tante chiacchiere. Tutti ad ogni modo usano il genere per filmare la loro visione della realtà e ci ricordano che la società occidentale è disfunzionale, senza offrire il quadro idilliaco e riconciliatore, tipico per esempio della commedia. Resta il fatto che personaggi come Gens, Laugier, Bustillo & Maury, Cattet & Forzani, Aja, Palud & Moreau, Du Welz sono capaci di fare un cinema popolare a volte frequentando altri generi, ma con uno sguardo personale, estetizzante e assolutamente autoriale.

È interessante notare come alcuni dei registi citati dopo pochi film in patria abbiano poi girato con capitali statunitensi i nuovi lavori, a dispetto del carattere estremo della propria opera. Cosa hanno visto gli Studios in Aja o in Bustillo & Maury?
F.Z. Ritengo che i committenti degli studios hollywoodiani abbiano intravisto in cineasti come Aja e la coppia Bustillo/Maury un appiglio per ritornare a creare un cinema horror non compromissorio e crudele, visto che le produzioni americane di genere degli ultimi anni sono ostaggio di pratiche come il remake, il reboot e il sequel, con i risultati spesso devastanti che sappiamo. So che Wes Craven ha apprezzato molto a suo tempo “Alta tensione” e sembra che come produttore del rifacimento del suo “Le colline hanno gli occhi” abbia preteso Aja come regista. Bustillo & Maury invece hanno reso un bel servizio alla saga di “Non aprite quella porta” con “Leatherface”, un prequel realizzato con passione e grande perizia, che però ha ottenuto più successo di critica che di pubblico. E per la logica industriale di Hollywood questo non è sufficiente.

Tra i saggi, uno analizza inoltre “Revenge” di Coralie Fargeat e “Raw” di Julia Ducournau, poi Palma d’oro con “Titane”, a conferma della fecondità del filone e della sua corporeità, spesso cronenberghiana. Che ne pensi?
F.Z. Penso che senza rileggere necessariamente il testo di Aurora Auteri, la stessa Julia Ducournau ci ha fornito più volte la risposta nelle interviste, dichiarando come Cronenberg sia per lei un autentico faro e se ricordo bene devono essersi anche incontrati prima di “Titane”. Sono convinto che fra di loro c’è stato un grande scambio di idee su come fare cinema. Mediante figure dietro la m.d.p. come Julia Ducournau e Coralie Fargeat l’horror franco-belga dimostra anche di essere davvero quello della parità di genere, in quanto quello americano per anni in tal senso non ci ha regalato cineaste, che si sono dedicate esclusivamente al cinema de paura, almeno nel mainstream intendo.