L’angolo di Michele Anselmi
Sembra uscire da un film di Ken Loach la Julie di “Full Time – Al cento per cento”, anche se il film è francese, scritto e diretto da Eric Gravel. D’altro canto, è il cinema transalpino oggi ad occuparsi con più convinzione di precarietà, disoccupazione, “deregulation” eccetera (vedere per credere “Un altro mondo” di Stéphane Brizé e “Tra due mondi” di Emmanuel Carrère, presto nelle nostre sale). La forza di “Full Time”, titolo anglofono un po’ incongruo al posto dell’originale “À plein temps”, cioè “A tempo pieno”, sta in buona misura nella prova di Laure Calamy, classe 1975, attrice versatile che qui da noi molti ricorderanno per aver interpretato l’assistente innamorata del capo nella serie Netflix “Chiami il mio agente!”.
Nel film, al cinema da giovedì 31 marzo con I Wonder Pictures, è una madre quarantenne separata che vive con i due figli in una cittadina della “cintura” parigina. Julie è volitiva, fattiva, orgogliosa, decisa a riprendersi una mansione da manager più in linea con le esperienze passate; ma intanto lavora come capocameriera in un albergo a 5 stelle della capitale, accettando umiliazioni e sospetti nonostante la dedizione assoluta che mette in quel che fa.
Solo che la sua vita sta andando in pezzi: letteralmente. L’anziana vicina di casa ha deciso di non custodire più i suoi figli per tutta la giornata e certo non ci sono i soldi per una baby-sitter; il prolungato sciopero dei trasporti le impedisce di arrivare in orario nonostante la sveglia all’alba; l’ex marito è in abissale ritardo con il pagamento degli alimenti e non risponde al telefono; la giovane “cacciatrice di teste” che dovrebbe assumerla per un impiego nel ramo marketing & statistiche continua a non farsi viva.
“Full Time” è un film ansiogeno, feroce, fortemente realistico (se non fosse per gli incubi minacciosi di cui è vittima la poveretta), preciso nel raccontare quello che oggi viene chiamato “burn-out”, insomma la sindrome da stress lavorativo, con tutto ciò che ne consegue: esaurimento emotivo, sfinimento fisico, irrequietezza, apatia, distrazione, frustrazione.
Si parteggia certo per Julie, sempre in corsa trafelata contro il tempo, s’intende impegnata in un percorso a ostacoli che comunica allo spettatore seduto in platea un senso di impotenza, di progressiva ansia. E tuttavia Gravel non sbaglia nel descrivere questa sorta di “eroica” mamma single anche come una donna irrisolta, senza più baricentro, incapace di fare i conti con le ambizioni personali (non sarebbe più facile cercare un lavoro nei pressi di casa invece che sbattersi tra autostop rischiosi e tassì costosi?).
Calamy, sempre in movimento col suo giubbetto beige e i capelli raccolti a coda di cavallo, è stato giustamente premiata a Venezia, sezione “Orizzonti”, per la sua prova sempre a un passo dalla crisi di nervi, tra soldi che mancano e contrattempi devastanti. “Se una cosa può andare male, lo farà” recita la prima “Legge di Murphy”, e in effetti il film non dà un attimo di tregua, inclinando verso un pessimismo fondo nel corso degli 85 minuti, tutti a passo di danza, sin troppo, come in una corsa a perdifiato verso il nulla. Ma tranquilli: c’è un mezzo lieto fine in mezzo a tanti inciampi, almeno così sembra dirci quell’ultima sequenza al luna-park.
PS. “Abbiamo un Bobby Sands”. Così, nel gergo delle cameriere da hotel, viene definito il caso deprecabile in cui un cliente danaroso se ne va lasciando la stanza sporca di cacca dappertutto. Curioso, no?
Michele Anselmi