Innanzitutto, e a scanso di equivoci, Gianni Morandi non c’entra. GIANNI potrebbe essere, semmai, Gianni De Michelis, il noto socialista viveur che Enzo Biagi etichettò come “avanzo di balera” e che incarnò alla perfezione lo spirito di un intero decennio, quei ruggenti anni Ottanta che, a ben vedere, non furono altro che un revival a colori del boom dei Sessanta, ma che pure coincisero con l’inizio della fine: nel 1983 è trasmessa la prima puntata del Drive In, e la tv commerciale comincia a veicolare anche in Italia un certo immaginario, quell’immaginario Mediaset che col passare degli anni ci ha frullato il cervello e che ancora oggi non smette di galleggiare nelle nostre teste (Il demiurgo Antonio Ricci, comunque, ci tiene molto ad accreditarsi come intellettuale e non perde mai occasione per definirsi situazionista debordiano, come per lasciare intendere che nonostante tutto anche il Gabibbo porta le Clark’s…).

E appunto di questo immaginario, inteso come complesso di immagini mentali e materiali prodotte dalla contemporaneità, è figlio GIANNI, l’ultimo patinatissimo libro del deboscio. GIANNI non ha un autore specifico: in primo luogo perché GIANNI siamo tutti noi, e poi perché come tutti sanno il concetto stesso di autore è obsoleto, in quanto ormai ogni testa è un testo. Ma GIANNI non è neanche un testo, è semmai un testimone: un testimone dei nostri tempi, discreto e rispettoso, che non coltiva velleità di critica sociale. A GIANNI non interessa incidere sul sociale, su questo sociale che ci frana addosso come una montagna di nulla. GIANNI non ci sfida e non ci vede, si limita a raccontarci (e raccontarsi) attraverso una serie di immagini, perché nella società dell’immagine è giusto che a parlare siano direttamente le sue protagoniste, le immagini appunto. Immagini mescolate, concentrate, colorate; immagini di Fabrizio Frizzi, Raffaella Carrà, Renato Pozzetto, Roberto Carlino di Immobildream, Dodò dell’Albero Azzurro; immagini di Cazzullo e di Pasolini, del Cristo e del Mike, di Sordi e di soldi (perché alla fine importano pure quelli).

GIANNI è perversione pura, è il significante che sputa in faccia al significato quel sasso che ha tenuto in bocca per troppo tempo. GIANNI è un libro iconico ma non ironico. In GIANNI c’è poco dio e molta umanità; ma quelli di GIANNI non sono mai soltanto dei calembour, sono sempre schiaffi alla vita puttana e mediocre. GIANNI è soprattutto un libro fatto bene, perché se una cosa la fai bene poi non la devi rifare due volte; ma è anche un ottimo prodotto di design, perfetto da sfogliare e accarezzare come un gatto, sul tavolo del salotto insieme agli ospiti, magari sorseggiando un pastis ghiacciato. GIANNI piace alla gente che piace. GIANNI è il blob degli anni quindici. GIANNI.

GIANNI non è stato fatto per il mercato ma per i posteri, per i nostri figli e nipoti, perché oggi tutti scrivono per il mercato e il risultato è che libri, riviste e giornali li usano appunto al mercato per incartare il pesce. Come ogni avanguardia, GIANNI mira a farsi tradizione: trascorsi i canonici vent’anni sarà finalmente un classico, vale a dire un compagno di classe di Melville, Dostoevskij, Proust, Arbasino, Carmelo Bene, Aldo Nove, Gigi Sabani…

Francesco Scida