L’angolo di Michele Anselmi | Pubblicato su “il Secolo XIX”

VENEZIA LIDO. Dopo maggio viene giugno. Ma per Olivier Assayas, regista parigino, classe 1955, “Après mai” significa un’altra cosa. Il mese in questione, sia pure scritto in minuscolo, è il Maggio francese, croce e delizia di tanti cineasti, da Bernardo Bertolucci a Philippe Garrel. Tema immenso e scivoloso, incline alla nostalgia canaglia o all’infatuazione ideologica, ne sa qualcosa il Michele Placido del “Grande Sogno”. Anche per questo Assayas proietta la storia tre anni dopo, un po’ per cautelarsi rispetto al “monumento”, un po’ per riprendere il discorso cominciato nel 2005 con il libriccino autobiografico “Une adolescence dans l’après-mai”.

Il film, ieri in concorso, sembra aver messo d’accordo tutti. È potente e sottile, restituisce l’aria del tempo e le illusioni di cambiamento, gioca sulla memoria ma non è intinto nel reducismo, parte da fatti vissuti dall’autore ma diventa universale. Un piatto appetitoso dopo l’indigesta sbobba propinata da Terrence Malick. Chissà che non finisca in zona Leoni, anche se siamo solo a metà del guado.

«Credo poco all’autobiografia al cinema. Si scrive sempre con i ricordi, vicini o lontani, più o meno deformati, idealizzati. A maggior ragione quando si parla di adolescenza» premette Assayas. Ma certo nel protagonista Gilles, incarnato da Clément Métayer, c’è molto di sé: a partire dal ritratto della periferica Valle di Chevreuse. Un pagliaio di capelli in testa sotto il casco, il viso gentile un po’ alla Donovan, il liceale di sinistra si ritrova all’inizio del film nei brutali scontri parigini con la polizia del 9 febbraio 1971. Ne esce illeso, mentre un altro manifestante perderà un occhio. Così, per farla pagare al Sistema, partono le operazioni di disturbo nella scuola, una delle quali provocherà il grave ferimento di un guardiano. L’evento segna la vita del ragazzo, innescando alla lunga una sorta di ripensamento, anche di maturazione rispetto a una politica “totalizzante” e invadente nel nome del Popolo.

Il film, lungo due ore, si gusta senza mai guardare l’orologio. Una decina i personaggi che ruotano attorno a Gilles, specialmente le due ragazze di cui si innamora: Laure, misteriosa, dedita alla droga, artistoide; Christine, militante, amica e pragmatica. Stretto nelle fumisterie ideologiche dell’epoca, tra frazioni maoiste, trozkiste e anarchiche, il giovanotto si muove timidamente nelle assemblee, distribuisce i volantini stampati dagli “angeli del ciclostile”, partecipa ai blitz notturni in tenuta da battaglia; ma si vede che gli piace far altro: pittura, disegno, grafica, forse il cinema. Da astratto diventa figurativo, intravvede una strada fuori dai furori ideologici che inclinano verso la lotta clandestina. Nell’epilogo, sul set di uno scalcinato film di serie B tra nazisti e dinosauri negli studi inglesi di Pinewood, lo vediamo finalmente in pace e sereno, mentre il fantasma di Laure gli sorride come in una quieta resurrezione.

Sostiene Assayas: «Non penso che il cinema sia un mezzo di comunicazione, non mi interessa “informare” lo spettatore. Il cinema è arte, deve riflettere sulle contraddizioni dell’individuo, anche della storia. Arte minoritaria che talvolta diventa maggioritaria». Gli chiedono se non sia un po’ triste il ritratto di quegli anni tempestosi. Lui nega: «Ma no. Ci sono la natura, la tenerezza, l’amore, la musica, il sole, specie nell’episodio italiano». Già perché, dovendo cambiare aria dopo un lancio di bottiglie Molotov, la combriccola se ne va in vacanza in Italia, prima attorno a Firenze tra i “compagni” di Lotta Continua, poi a scendere verso Reggio Calabria.

Naturalmente “Après mai” nutre le adolescenziali storie d’amore & rivoluzione con una mirabile ricostruzione d’ambiente, roba che noi italiani ce la sogniamo nei film sugli anni Settanta. Abiti, parrucche, scarpe, automobili, giornali militanti come “Tout!” o “Combat”, i mitici motorini Vélosolex, il culto esoterico dell’India. E poi citazioni azzeccate: dal saggio “Gli abiti nuovi del presidente Mao” di Simon Leys ai film “Joe Hill” di Bo Widerberg e “Il coraggio del popolo” di Jorge Sanjinés, i disegni di Robert Crumb, le opere di Alighiero Boetti, le canzoni di Booker T & the Mg’s o dei Soft Machine. Il punto di vista di Assayas non è mitizzante o epico, a tratti il film sfocia nella commedia affettuosa, e tuttavia si esce da “Après mai” con la sensazione giusta: che la generazione del dopo Maggio ’68 è nata e si è evoluta nel caos, vittima di un integralismo coerentemente distruttivo. Rifiutato dalla Lucky Red, arriverà in Italia a ottobre distribuito da Officine Ubu.

Michele Anselmi