La Mostra di Michele Anselmi per Cinemonitor (11)
I blues nerissimi di Robert Johnson e Blind Willie Johnson risuonano tra le case pericolanti dell’immaginario paesino pugliese di Provvidenza; e naturalmente c’è un motivo se il regista Pippo Mezzapesa, quello di “Il paese delle spose infelici”, ha scelto quelle musiche dolenti, scandite dalle sonorità delle chitarra slide, per impaginare la sua ballata sul senso della memoria. Evento speciale alle Giornate degli autori, “Il bene mio” sfodera un titolo fortemente simbolico che gioca con il doppio significato del sostantivo: bene come concreta proprietà, bene come condizione esistenziale.
Oddio, non che stia tanto in forma Elia, l’ultimo abitante della cittadina fantasma che fu sinistrata anni prima da un terremoto. A dispetto nel glorioso nome biblico che porta, il cinquantenne magro e vagamente allucinato si aggira tra quelle case sgarrupate tenendo fede alla missione che s’è dato: ricordare ai suoi concittadini, tutti trasferitisi nella vicina Nuova Provvidenza per dimenticare lutti e sofferenze, la forza dell’identità, dell’appartenenza. Elia perse la moglie Maria in quel disastro, e oggi, simile ad uno strano profeta irriso e compatito dalla comunità, l’uomo è più solo che mai, e tuttavia deciso a non sgomberare la sua vecchia casa, nonostante le minacce del sindaco-parente.
Tutto costruito sul fisico smunto e la cadenza dialettale di Sergio Rubini, “Il bene mio” è un film irrisolto, a tratti incespicante, sembra quasi uno scampolo della prima produzione Fandango; e tuttavia è abitato da uno spirito gentile, da un palpito emotivo forte, specialmente nel toccante finale a sorpresa, quindi da non rivelare.
Naturalmente viene da pensare ai terremoti che hanno sventrato due anni fa tanti paesini di montagna tra Marche, Lazio e Umbria, anche se Mezzapesa mira all’allegoria, specie nella scelta dei personaggi femminili: dall’ex maestra ora barista innamorata resa da Teresa Saponangelo alla misteriosa migrante in cerca di protezione col viso spaurito di Sonya Mellah. Qualche nota di commedia rurale/surreale nei duetti con Dino Abbrescia non ammorbidisce il tema di fondo, svolto da Rubini con spirito da “one man show” cui tutto è permesso. Qualche volta sin troppo.
Michele Anselmi