Girare un film al tempo del Covid. Impresa ardua. È quanto sto cercando di fare da alcuni mesi per raccontare l’incredibile storia di un bambino abbandonato negli anni Quaranta dalla madre americana antifascista nelle montagne del nord d’Italia e poi emigrato negli Stati Uniti alla fine della guerra all’età di 10 anni. Analfabeta e selvaggio… diventerà Nobel per la medicina. È la storia di Mario Capecchi, che ora vive e insegna a Salt Lake City, la città dei mormoni. Sono ben poche le produzioni che durante la pandemia si azzardano a mettere in piedi un film. In America quasi nessuna, in Europa qualche temerario. Il primo problema è che non siamo assicurati. Nessuna compagnia, né italiana né straniera, comprende le pandemie e dunque non sono coperti i danni derivanti dal fermo film. Se decidi di partire ugualmente e disgraziatamente qualcuno della troupe si ammala è d’obbligo la quarantena e i danni sono tutti a tuo carico. Solo Netflix al momento garantisce il buon fine delle sue produzioni, ma nessun altro gruppo di rilievo ha fatto altrettanto. Le difficoltà nascono quando metti in piedi la troupe e dai il via al set.
In un film come il mio, titolo “Resilient”, la complessità della storia e l’ambientazione tra l’Italia e l’America obbligano i miei produttori (due donne coraggiose, vincitrici di vari premi Oscar, Elda Ferri e Milena Canonero) ad affrontare una serie di problematiche sino a oggi sconosciute. Qualche migliaia di persone tra attori, tecnici e comparse deve sottoporsi ogni giorno a una quantità impressionante di obblighi e precauzioni. Ovviamente a tutti va misurata la febbre prima di presentarsi al lavoro, tutti devono indossare le mascherine per l’intera giornata, il che è frustrante e affaticante. I pasti vengono serviti sigillati ed è d’obbligo la presenza continua di personale anti-Covid, pronto a intervenire in caso di possibili emergenze. Gli attori, i miei sono in maggioranza di madrelingua inglese, sono quelli che rischiano di più, perché ovviamente non possono recitare indossando le mascherine e dunque sono i soli a rimanerne senza per ore, preoccupati di possibili esposizioni al contagio. Se pertanto durante le riprese i problemi sono tanti, non va meglio quando il film è finito e si appresta a uscire in sala.
Come si evince dalle cronache molte sale sono rimaste chiuse, oppure vengono costrette a una programmazione limitata a pochi spettacoli, il che sta sferrando un colpo ferale all’intero comparto. Se le sale soffrono, gli incassi dei box office sono così magri che la maggior parte delle produzioni con i film ultimati resta al palo, in attesa che la pandemia scompaia o si spera affievolisca. Ma quanto sarà possibile resistere? Per produrre un film di un certo valore occorre investire parecchi milioni, grazie a un cospicuo flusso di denaro prestato dalle banche (pagando non pochi interessi, i quali crescono con il passare del tempo). Più aspetti, più paghi e già c’è chi non regge più. Se Hollywood è in crisi, figurarsi Cinecittà. Se poi guardiamo alla composizione degli spettatori che ancora scelgono di andare al cinema vediamo che gli anziani sono i più restii, preoccupati di essere contagiati dai vicini e di dover restare due ore in un luogo chiuso. Né vengono rassicurati dalle debite distanze tra le poltrone e dalle precauzioni messe in atto dagli esercenti. I giovani sono quelli più propensi a frequentare le sale, ma solo per assistere ai soliti blockbuster prodotti oltre oceano. Osservando gli incassi odierni c’è da mettersi le mani nei capelli. Era meglio non uscire? C’è chi pensa di sì, ma c’è anche (e va considerato un atto di coraggio) chi pensa che se non si tiene alta l’asticella il pubblico finirà per disabituarsi a frequentare le sale cum magno gaudio delle varie piattaforme, da Netflix ad Amazon, le quali grazie a questo tragico virus che sta infettando il mondo hanno centuplicato i loro introiti. E infatti sotto i baffi sperano che non se ne vada via mai.
Roberto Faenza