Quattro film, 12 ore di permanenza totale. L’Auditorium, d`altronde, è luogo godibilissimo, l’unico scampolo di Roma che può ricordare una capitale europea: è bene goderselo prima che la stanchezza arrivi. E arriverà presto.
Se il buongiorno si vede dal mattino, sarà dura. Uno ce la mette tutta, arriva docciato di fresco e sorridente, ma il festival t’accoglie con Triage di Danis Tanovic: l’effetto è quello di un uppercut al mento devastante. Il regista di No Man’s Land dimostra ancora una volta, dopo il brutto L’enfer, di non essersi mai ripreso dalla sbornia post Oscar. Qui torna su uno scenario di guerra, quella tra curdi e iracheni alla fine degli anni ’80, per occuparsi del fotografo irlandese Mark (Colin Farrell) e del suo dramma. Ferito e malconcio torna a casa senza il suo miglior amico e collega, ma è cambiato, nasconde qualcosa. A provocare il ritorno del rimosso sarà un Christopher Lee versione psicanalista, in passato specialista della redenzione psicologica dei criminali franchisti. Il film parte come un war movie, poi la questione curda diventa solo pretesto per uno psicodramma personale, scritto e diretto col bignami di psicanalisi in mano. Una sorta di incrocio tra Walzer con Bashir di Folman e Blackout di Abel Ferrara, senza i lampi visivi del primo (che pure complessivamente irritava per narcisismo) e l’audacia del secondo, in cui il protagonista dopo aver “ritrovato” il crimine commesso si annegava in una sorta di dolce mare leopardiano. Struttura faticosa, utilizzo telefonato dei flashback, ambiguità ideologica, sciatteria visiva. Difficilmente digeribile.
Tocca ad Alice delle città, la sezione per ragazzi. Il film è Skellig, tratto da un romanzo che – fascetta in libreria docet – ha entusiasmato Nick Hornby. Ci accostiamo speranzosi, ma l’amaro in bocca alla fine ritorna. Stavolta il film sembra stare al confluire di un trivio tra Un ponte per Terabithia, Lo spazio bianco di Francesca Comencini e Ricky di Ozon. Del primo il film ha la struttura: bambino figlio di genitori working class vive in casa malconcia con baracca misteriosa in giardino e bosco nelle vicinanze che esplora con la vicina di casa. Come in Lo spazio bianco, c’è una bambina in un’incubatrice (la sorellina del protagonista) sospesa tra la vita e la morte. Come in Ricky, c’è un essere umano con le ali: stavolta non è un bambino ma niente di meno che Tim Roth, angelo stanco del mondo e sfiduciato che grazie al ragazzo ritroverà fiducia e forza per salvare la sorellina. Insomma, la delusione sta che mentre nel bellissimo Terabithia si celebrava la fantasia rigeneratrice come mezzo per rendere meno amara la realtà ed elaborare un lutto, qui più blandamente si caldeggia la capacità di avere fede, di credere in se stesso e negli altri. Con un last minute rescue come premio.
Con un po’ di pazienza, il primo bel film arriva. È cileno, è politico, è Dawson, Isla 10. Miguel Littin racconta i giorni di prigionia nell’inospitale isola di Dawson di alcuni dei ministri e dei collaboratori di Salvador Allende dopo il golpe dell’11 settembre 1973. Argomento verso il quale, confesso, le mie difese critiche si abbassano. E allora perdono al film le sbavature, le sottolineature retorico-militanti che spuntano qua e là, e mi godo lo stile diaristico, impressionistico, che per sguardo alla natura e utilizzo della voce off ricorda a tratti il Malick de La sottile linea rossa. Mi guardo un gruppo d’attori magnifici incarnare paure e debolezze di una classe che passa in 48 ore dalle stanze dei bottoni alla tortura. Mi godo ancora una volta il nastro dell’ultimo discorso di Allende, quando le bombe già cascavano sulla Moneda. E lui rimase.
Donatella Maiorca ha un record. Esordisce giovane con un brutto film, Viola, poi dopo dieci anni di purgatorio televisivo torna a colpire con un altro brutto film. Che al primo si richiama per titolo, Viola di mare, e attitudine finto-scandalistica. Mi dispiace, ma del melodramma lesbo a tinte fosche ambientato nella Sicilia dei malavoglia non si salva nulla. Dalla regia che utilizza a caso campi lunghi e flash-forward alle musiche rock (!) invadenti di Gianna Nannini. Forse l’ambizione era guardare a Sofia Coppola: lei rendeva pop Maria Antonietta grazie agli Strokes e alle All-Star. Qui ho visto spuntare un’autoreggente very 90’s, e ho visto Solarino e Ragonese fare faccette e smorfie da Ragazzi del muretto.