Giù dalla cattedra | Day three
a cura di Giorgio Nerone
Clooney alle nove di mattina. Il test festivaliero per eccellenza, perché non dormire durante la prima proiezione mattutina è garanzia di avere di fronte qualcosa di estremamente buono. E diamine, Jason Reitman è dannatamente bravo. A 32 anni è già al terzo film e i primi due sono tutt’altro che qualunque: Thank You for Smoking e Juno. D’accordo, è figlio d’arte (il padre Ivan furoreggiava negli 80’s con Ghostbusters e I Gemelli), ma qui l’italico sospetto verso i raccomandati va convertito in applauso, perché Up in the air ci consegna un filmmaker con una chiara impronta personale, una visione, una missione: far ridere (e di brutto) affrontando tempi spinosi, cucinare agrodolce ma senza pacche sulla spalla rassicuranti. In Thank You si parlava di responsabilità morale nella relazione padre-figlio, in Juno di aborto e maternità. Qui si parla di crisi economica, di licenziamenti e dignità, di solitudine.
Clooney è il perfetto squalo capitalista, efficiente, cinico, seducente. Per mestiere licenzia persone, per vocazione accumula miglia aeree e tiene la sua valigia leggera. Si tiene, insomma, a debita distanza dagli affetti, ma due donne lo metteranno in crisi. Reitman ha due grandi meriti: scrivere battute fulminanti per la coppia Clooney-Farmiga (lui è una conferma, lei una sorpresa) e tenere saldo il timone quando il film sembra propendere per una classica sbandata sentimentale. L’happy end non c’è, il finale è amaro, il film non farà una lira. Noi godiamo.
Potrebbe vincere, se non lo avesse già fatto due anni fa con Juno. Ma in definitiva: a chi frega qualcosa dei premi del Festival di Roma?
Tra sceneggiatura a incastri, sguardo su adulti alla ricerca dell’adolescenza e pedinamento morboso dei corpi, Rodriguez chiama in causa la premiata ex-ditta messicana Inarritu-Arriaga, il nostro Muccino e il Larry Clark di Kids/Ken Park. Dei primi riesce a evitare l’insincerità e l’eccesso di costruzione, del secondo l’indulgenza, del terzo la tensione a moralizzare. Ovvero: nulla di nuovo, ma ti arriva in faccia.
E’ il turno del primo: c’è il solito grande Castellitto, ci sono la boxe e Million Dollar Baby sullo sfondo, lo squallore di Fiumicino e Ostia, l’ultra realismo periferico, romeni, albanesi. Si racconta un personaggio in credito con la vita che istruisce il figlio per poter incassare. Il tono è essenziale, camera a mano, pochi colori. Però l’Angelini regista si è disconnesso dall’Angelini sceneggiatore, e la regia gioca contro a uno script che dal giro di boa in poi accumula colpi di scena e colpi di teatro, anche improbabili. Ne viene fuori un ibrido, una mezza delusione.
Ma c’è ancora Diritti. Lui non fallirà. Non può, non deve.
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