Come sul filo di un equilibrista, questa è una storia a metà tra solitudine, da un lato, e amore, dall’altro, descritta con precisione quasi maniacale dall’occhio acuto del regista Ivano De Matteo che non lascia niente al caso e piazza ogni elemento al posto giusto, come a formare un puzzle. Il dramma si consuma in una famiglia piccolo-borghese, una famiglia come tante in cui il marito tradisce la moglie, lei lo scopre e, dopo una convivenza forzata, lo costringe ad andarsene. Sembrerebbe un copione già letto se non fosse ambientato nell’attuale epoca della crisi, dove non basta una separazione per sanare le acque perché entrano in gioco altre dinamiche: il costo della vita raddoppia mentre gli stipendi restano invariati. Ed è così che per Giulio, dipendente comunale, inizia un incubo fatto di rate del mutuo da pagare e scadenze che incombono minacciosamente su un’esistenza famigliare a cui ora si aggiungono le spese per una nuova vita da single.

Man mano che la pellicola si avvolge, l’uomo – eccezionalmente interpretato da Valerio Mastandrea – è sempre più provato dalla mortificazione mentre la sua innata ironia si trasforma in cinismo e, poco a poco, scompare. Ormai è solo, esanime nella battaglia per la sopravvivenza: il suo tormento quasi si può toccare e emoziona a tal punto da trasmettere allo spettatore una sensazione di impotenza di fronte a tanta desolazione. Il film si chiude con un sorriso appena abbozzato che timidamente ci fa sbirciare fuori dal baratro con la sottile speranza che possa esserci una via d’uscita. A tratti, si avverte però una lieve distonia tra premesse e conclusioni: a una situazione di apparente stabilità economica, infatti, si contrappone un tale sfacelo finanziario che getta un velo di incredulità nell’occhio di chi guarda, tanto più che entrambi i coniugi lavorano.

Sta di fatto che in questo modo il protagonista, pur responsabile della rottura, ne esce come un uomo distrutto e un padre premuroso, suscitando di conseguenza empatia e compassione; mentre la moglie tradita (Barbora Bobulova) quasi genera rabbia per l’atteggiamento passivo, non partecipativo, e soprattutto inizialmente cieco nei confronti di una persona di cui conosce le disponibilità e con la quale ha deciso anni prima di costruire un futuro. Forse questa non è poi una storia così comune bensì una storia limite, seppur verosimile, di una famiglia alle prese con una rottura in cui i ruoli si invertono e l’artefice della disfatta diventa un martire, delineando la nascita di una nuova classe sociale fatta da coloro che vivono in costante equilibrio tra luci e oscurità.

Stefania Scianni