Allontanandosi dalla realtà italiana, quasi fuggendola, Zanchin si avvale dei meccanismi narrativi e produttivi dei film di genere per volgere il proprio sguardo su universi sconosciuti, e gradualmente questo sguardo si sofferma sempre più, fino ad essere rapito e indugiare completamente, nell’ultimo film, su quanto accade davanti alla macchina da presa. Non più guidata per mano da una sceneggiatura incalzante, come invece accadeva ne La lunga sfida e in Rebus, ormai libera di scrutare e di muoversi lentamente, al ritmo dei piccoli passi dei due protagonisti. Al di fuori di vincoli narrativi, di condizionamenti di plot e di colpi di scena, avendo come complici in questo viaggio le sensibili Suso e Silvia Cecchi d’Amico, autrici con Zanchin del soggetto e della sceneggiatura del film. Il regista insegue qui il grado zero dell’osservazione, di fronte alla quale nulla può accadere, se non i giochi, le favole, i riti ricreati dai bambini e dalla loro guida spirituale, mentre l’azione è relegata all’interno dello schermo televisivo, che inonda la villa di scene di guerra. Zanchin elude la realtà, fuggendo con lo sguardo dall’Italia sessantottina, e quando la realtà cerca in altri luoghi di imprigionarlo, allora si affida alla favola e ad essa consegna i suoi messaggi: di pace e di tolleranza. Messaggi che potevano suonare strani (ed estranei) nell’Italia degli anni di piombo, ma che oggi invece impongono almeno una visione del film. Magari nelle scuole.
Gli irregolari | Il cinema esotico di Nino Zanchin
.jpg)
di Domenico Monetti e Luca Pallanch
Cominciamo dalla fine… dalla lettera Z. In un’ipotetica controstoria del cinema italiano, vista attraverso le vicissitudini di autori irregolari, non potevamo che partire dal fondo, sperando di risalire la china. Non da Valerio Zurlini, ormai da decenni l’ultimo nome del dizionario dei registi, irregolare sì, ma troppo riconoscibile per destare il nostro interesse (attuale), ma da Nino Zanchin (Camposampiero, Padova, 1930), misconosciuto artefice di tre film nel giro di 5 anni (1967-1972). Anni chiave del Novecento, prima, durante e dopo la contestazione giovanile, in cui il nuovo cinema italiano si confrontava disperatamente con la realtà, in un cortocircuito fra immagine e analisi, visione e delirio. La parola d’ordine, anche fra i cineasti, era scendere in piazza, armati della macchina da presa per cogliere gli stimoli e riprodurli sullo schermo, quando ancora si aveva l’illusione di poter cambiare il mondo alla velocità di 24 fotogrammi al secondo.
Nino Zanchin nel 1967 aveva 37 anni, troppi per coltivare illusioni. Molti li aveva spesi sui set come aiuto regista, ovvero come la rotella di un meccanismo la cui perfezione spesso risiede proprio nella capacità di chi agisce nell’ombra di risolvere le situazioni. Zanchin era uno dei più celebri Mr. Wolf del cinema italiano, come Rinaldo Ricci, Mario Maffei, Carlo Lastricati, Albino Cocco, Maurizio Mein, Guidarino Guidi, Franco Cirino, Gianni Arduini, Tony Brandt, Roberto Pariante, gli aiuti registi che hanno lavorato per la gloria degli altri e che nelle storie del cinema italiano a stento sono citati. Non troverete traccia del loro lavoro se non nel fondamentale libro di Tonino Valerii Manuale dell’aiuto regista (Gremese, Roma, 1993), che spiega la centralità del ruolo dell’aiuto nell’economia di un film, soprattutto nel cinema degli anni d’oro, con troupe vere e masse da gestire con la capacità di un generale. Zanchin aveva imparato il mestiere sul campo con un maestro come Pietro Germi (Il ferroviere, L’uomo di paglia e Un maledetto imbroglio) e l’aveva profuso in ogni latitudine del cinema italiano, da Carlo Ludovico Bragaglia a Camillo Mastrocinque, da Florestano Vancini a Luigi Comencini, da Sergio Corbucci a Lucio Fulci, da Duccio Tessari a Sergio Sollima, persino Jules Dassin (La legge, film di difficile realizzazione), attraverso generi, stili, metodi produttivi completamente differenti gli uni dagli altri. La poliedricità al servizio di un cinema capace di cambiare pelle a ogni film, in un sistema industriale che operava a pieno ritmo e non concedeva pause ai suoi uomini migliori.
La lunga sfida
Resta sempre un mistero il motivo per cui un aiuto regista decide a un certo punto della sua carriera di compiere il grande salto e di esordire alla regia. A tutti il destino offre una chance, ma non tutti decidono di afferrarla: i duri e puri resistettero a qualsiasi tentazione, altri cedettero una sola volta, qualcuno non tornò più indietro. Zanchin evidentemente ci provò gusto e girò tre film.
Ma torniamo all’Italia della fine degli anni Sessanta: quali occasioni si offrivano a registi non più giovanissimi e di comprovato mestiere, come Zanchin? O sporcarsi le mani con la realtà, con il distacco di chi non è coinvolto emotivamente con le ribellioni in atto, oppure fare del sano cinema popolare, perché il pubblico, da sempre, vuole evadere. Al tempo furoreggiavano i cowboy e gli agenti segreti, ormai ridotti però a modelli in serie, poco attraenti per un aiuto deciso a fare il salto. Ma su 196 sceneggiature realizzate nel 1967, considerando solo i film di produzione italiana o di coproduzione maggioritaria, per non parlare di quelle non realizzate, ve n’era una che si prestava a variazione sul tema, ed era la sceneggiatura de La lunga sfida. Stranissima combinazione di personalità così differenti: il futuro re del noir all’italiana Fernando Di Leo, allora attivissimo e ispiratissimo sceneggiatore di western all’italiano, spesso con l’amico Vincenzo Dell’Aquila (un sodalizio, quello di Fernand Lyon e Vincent Eagle, il cui marchio di fabbrica sul cinema di Sergio Leone è sfumato sempre più, cancellato da misteriose assenze sui titoli di testa), uno degli irregolari per eccellenza, Alberto Cavallone, cineasta sui generis, e lo stesso Zanchin. Tre teste che andavano in direzioni opposte: Di Leo con l’occhio sempre rivolto a nord-ovest (Usa e la Francia dell’amato Melville), Cavallone a est (ossessionato dalle immagini del Vietnam che ritorneranno spesso nel suo cinema), Zanchin a sud (Marocco, Libano, Tunisia, come vedremo). Probabile, se non scontato, che abbiano lavorato ognuno per conto proprio, e forse in tempi diversi, su storie che si intrecciano, di cui se è evidente la scelta da parte di Zanchin dell’ambientazione e del taglio esotico conferito alla vicenda, ed egualmente riconoscibile la capacità narrativa di Di Leo, volta a tenere lo spettatore con il fiato sospeso con continui colpi di scena, meno personale appare l’apporto di Cavallone, quale avremmo apprezzato, un paio di anni dopo, ne Le salamandre (anch’esso esotico, ma pregno di un’adesione totale alla realtà politica e sociale, con i sud del mondo destinati, pasolinianamente, a specchiarsi, l’Africa nera come Harlem: abbattimento delle barriere sessuali, ma non di quelle razziali). Una sceneggiatura che poteva benissimo dar vita a un western, a partire dal titolo, che forse qualcuno avrà tratto in inganno e che invece, proprio per non aderire ai canoni di un genere, sfugge a ogni classificazione rientrando nell’ampia categoria del cinema d’avventura. Cinema popolare, verrebbe da dire, ma il pubblico non rispose all’appello e il film rimase pressoché invisibile. Merita una riscoperta (la famosa domanda da cento milioni che agita i sonni di quelli che Giovanni Buttafava definiva, proprio a proposito di Di Leo – da lui rivalutato ante litteram –, “cinespigolatori a venire”)? Intanto la trama: come scrisse il fantomatico Napoleone Wilson nella sua recensione su «Nocturno» nel 2007, in un dossier dedicato ai “misteri italiani”, «In un Marocco non meno aspro e polveroso della Sicilia rappresentata da Germi, l’europeo Paynes (uno straordinario Luigi Pistilli) si scontra contro il reietto locale Blal (Charaibi Ben Bensalem), tentando con ogni mezzo di far uscire dai confini del paese 100 chili di hascisc. Blal, che non solo gestisce il traffico di droga, ma fissa il prezzo sull’intero mercato interno, si oppone utilizzando i medesimi metodi di Paynes. Una lunga sfida, come recita il titolo, in mezzo alla quale si viene a trovare (“tra l’incudine e il martello”) un ingegnere dell’Unione forestale, Bruno Pasquet (Giorgio Ardisson), che ha il privilegio con la sua jeep di passare i posti di blocco senza essere perquisito dalla polizia. Paynes per convincerlo a trasportare la droga gli rapisce il figlio Eric (Marco Stefanelli, un futuro da stuntman), e il film che parte come una pellicola di spionaggio, con tanto di scena iniziale a Londra, nella miglior tradizione del genere, si trasforma in un lacrima-movie potenziale». Con un commovente finale sul filo proprio delle lacrime, per fortuna represse nell’abbraccio finale tra padre e figlio: Giorgio Ardisson, eroe nei film spionistici all’italiana di Sollima, anch’essi esotici (Agente 3S3 passaporto per l’inferno e Agente 3S3 massacro al sole), e Marco Stefanelli, figlio di Benito, che in quegli anni la faceva da protagonista nei western. Se poi il cattivo di turno aveva il volto (e le nevrosi) di quel grandissimo attore che era Luigi Pistilli, anche esso reduce dal western leoniano, allora la commistione di generi è qualcosa più di un’ipotesi, supportata dalla produzione italo-tedesca (Tritone Filmindustria – ovvero Salvatore Alabiso, la cui storia è intrecciata, almeno agli inizi, con quelli della P.E.A. di Alberto Grimaldi, il produttore che più ha creduto nello spaghetti western – e Rapid Film di Monaco). Ci sono tutti gli ingredienti del western, ritmati da una grande colonna sonora di Marcello Giombini: l’eroe solitario, ovviamente buono, i cattivi, persino in una graduatoria di crudeltà, le pallottole, l’oro (l’oro bianco: la droga), le jeep che sostituiscono i cavalli, al servizio di una trama in cui gli intrighi orditi dalle parti in causa appartengono ai canoni dello spionistico. E Zanchin: i due successivi film confermeranno che l’interesse esotico per la realtà che si offre al suo sguardo occidentale (e nordista) è tutto suo. È il suo marchio di fabbrica e il suo stile: la macchina da presa si sofferma sugli usi e le tradizioni locali, ne assimila i ritmi ora compassati ora vorticosi, l’alternanza di ozio e di azione, di caldo e di vento, il fascino di un mondo governato da altre leggi. E il pericolo che ne discende…
Rebus
Secondo film di Nino Zanchin, più ricco, da un punto di vista produttivo, rispetto a La lunga sfida, Rebus (1968) vede una coproduzione costituita da Tecisa (Madrid), P.E.A., Rapid Film (Monaco), Euro American Film (Buenos Aires). Essendo spagnola la produzione maggioritaria, il titolo originale del film è El crimen también juega. Sin dai titoli di testa, estremamente pop (si veda la grafia di Rebus, così come il nome del regista), e dalle splendide musiche iniziali di Luis Enriquez Bacalov, l’opera seconda di Zanchin non può che rimandare ai film spionistici bondiani e finti bondiani (in particolar modo, per l’andamento ironico e disincantato è molto vicino alle avventure cinematografiche dell’Agente 077 dirette da Terence Hathaway, alias l’italianissimo e solidissimo artigiano Sergio Grieco). Ma Zanchin accentua l’aspetto del disincanto con uno spirito leggero, memore della Swinging London e del cinema di Richard Lester. Volutamente non c’è psicologia, né drammaticità, ma solo strategie, come se l’intera vicenda fosse una partita a scacchi o ancora meglio – per citare una sequenza del film – il golf giocato su un campo verdissimo. Laurence Harvey è Jeff Miller, un croupier quasi sempre alcolizzato. Beve perché non sopporta la corruzione nei casinò. Dopo un ennesimo licenziamento, di fronte al Tamigi avvolto dalla nebbia, viene avvicinato da uno strano personaggio in bombetta che gli offre un nuovo lavoro da croupier in un casinò di Beirut. Ben presto si apprende che il nostro Jeff si deve improvvisare una sorta di agente segreto, per smascherare un’organizzazione di bari. Il misterioso signore in bombetta appartiene infatti a un’organizzazione mondiale di croupier e dirigenti di casinò che vuole sgominare questa misteriosa banda criminale. E infatti quando Jeff arriva a Beirut deve fronteggiare diversi enigmi: un misterioso poliziotto, il capitano Zhavir (Alberto De Mendoza), che lo segue sempre, un’apparente svampita turista americana (Camilla Horn) e soprattutto la bellissima cantante americana, Laura (Ann Margret). Ognuno potrebbe conservare un terribile segreto, utile a svelare un ennesimo rebus: la morte misteriosa di un croupier. Il rebus risiede nel soggetto più insospettabile, la bravissima Camilla Horn, che ci regala una sfolgorante battuta: «La mia faccia non mi assomiglia», dietro la quale si cela la soluzione dell’enigma. Rebus, oltre a essere un oggetto misterioso, come tutti i film che compongono purtroppo l’esigua filmografia di Nino Zanchin, è un perfetto oggetto pop in entrambi i sensi: letterale, perché intrattiene lo spettatore senza inutili e pedanti sottotesti; artistico, perché è una vera propria mostra di oggetti che creerebbero invidia a un azzimato Andy Warhol: la montatura degli occhiali di Ann Margret, le primordiali luci stroboscopiche, marchingegni retrofuturisti. Ma Rebus vuole essere anche un sottilissimo gioco d’identità, ovvero nessuno è ciò che sembra. E, come una nuvola di fumetto, con sottofondo di musica vintage, i personaggi sorridono di fronte allo spettatore, fumando una sigaretta e bevendo Martini, annunciandoci che il postmoderno di Lyotard sarebbe presto nato.
Con Rebus si approfondisce l’esotismo secondo Zanchin con una netta contrapposizione di ambienti non soltanto geografici. Londra, già (intra)vista ne La lunga sfida rappresenta per il protagonista la città della perdizione e dell’autodistruzione, avvolta dalla nebbia atmosferica e dai fumi dell’alcool. È il tramonto dell’Occidente. Beirut segna invece la rinascita anche spirituale di Jeff Miller. Se la nebbia è completamente sparita e Jeff ha smesso definitivamente con il vizio del bere, agli occhi dello spettatore Beirut appare come una città enigmatica con una netta contrapposizione tra un milieu di ricchi molto simile a Montecarlo (alberghi iperlussuosi con piscine luccicanti) e la città “antica” con le sue vie che formano un labirinto, in zone molto povere, che il protagonista è costretto a attraversare, correndo alla disperata ricerca di ombre che si dileguano fra i tendaggi dei mercati o in sedi segreti, travestite da negozi di antiquariato. Esotismo come avventura, nella ricerca dell’altro da sé, dove un cenno di sguardo rivela un inatteso codice segreto e una danza del ventre trasmette una vitalità e una carnalità dimenticate dal “freddo occidentale”.Quando, come cantava Rino Gaetano: «chi parte per Beirut e ha in tasca un miliardo».
I figli chiedono perché
Per il suo terzo ed ultimo film, Perché (noto anche come I figli chiedono perché), prodotto dall’Istituto Luce, Zanchin si sposta in Tunisia, dove può avvalersi di un assistente alla regia d’eccezione, come Tarek Ben Ammar, nipote della moglie del presidente Bourguiba, e futuro grande protagonista delle vicende televisive (e non solo) italiane, e dell’aiuto regista Filippo Ottoni, irregolare esordiente di lì a poco con La grande scrofa nera. Film interessante se non altro per queste presenze e per l’interpretazione di Umberto Orsini, perfetta esemplificazione dell’occidentale di successo in trasferta nel (presunto) terzo mondo. Anche lui ingegnere, come il protagonista de La lunga sfida, anche lui padre, ma di una ragazzina, Michèle, che fugge spesso e volentieri dalla sua prigione dorata, la villa di famiglia, per mischiarsi ai bambini tunisini, con la naturalezza che solo i bambini hanno, senza distinzione di razza e religione. Stringe amicizia con un suo coetaneo, Karim, il quale la introduce nel suo universo, regolato da norme e da usi, ma anche da una semplicità e spontaneità, diversi da quelli a cui la bambina è abituata. I due si sposano, ma la guerra incombe e l’ingegnere decide di lasciare il Paese con la famiglia. La bambina si ribelle, scappa, ma invano: trascinata a forza dal padre sale sull’aereo che la riporterà in patria, sotto lo sguardo di Karim che si domanda «Perché?». Una domanda alla quale tentiamo ancora di dare una risposta.
«Raccontato con i moduli della favola, ma inserito nel contempo in una realtà politica e sociale di vita attualità, il film sviluppa due temi ben precisi: l’uguaglianza delle razze e la possibilità di un loro incontro sul piano dei sentimenti più genuini» (L. S., «Il Popolo»). Zanchin, ancor più che nei due precedenti film, è attratto dal fascino della diversità etnica e sociale, dall’insieme di regole e tradizioni che definiscono il costume di un popolo. Vi si accosta con la curiosità di un bambino, facendo proprio lo sguardo di Michèle e non temendo l’ingenuità che l’infanzia porta con sé. Anzi coltivandola, come alternativa a sguardi cinici e spietati, o semplicemente disincantati. Una favola sì, ma dall’epilogo tragico, per le conseguenze, non dette, sulle vite dei due bambini, costretti a dividersi per sempre. Complici di un gioco che, trasformato e celebrato in un rito nuziale, ha lo stesso valore per loro di un fatto reale, per quanto singolare (ma la singolarità viene avvertita solo dagli adulti), e come tale viene vissuto e inevitabilmente sofferto, al momento del distacco. Lo spettro della guerra è l’emblema di tutti i condizionamenti esterni che gravano sulle persone impedendone la convivenza e l’integrazione.