A colloquio con Fabio Giovannini, autore, insieme a Antonio Tentori, di “Gli occhi azzurri del terrore. I film e la carriera di Donald Pleasence”, un saggio dedicato al grande attore britannico pubblicato da Shatter Edizioni.
“Gli occhi azzurri del terrore. I film e la carriera di Donald Pleasence” colma un vuoto non da poco nel mare delle pubblicazioni dedicate al fantastico. Come nasce l’idea del volume pubblicato per Shatter?
Fabio Giovannini: Durante le presentazioni di precedenti libri scritti da me e Antonio Tentori più volte dal pubblico ci venivano suggeriti nuovi temi cui dedicare attenzione. Il nome di Donald Pleasence era ricorrente e questo ci ha stimolati a concretizzare un progetto che avevamo ipotizzato da tempo. Era un attore che entrambi avevamo sempre apprezzato e ci sembrava doveroso dedicargli finalmente il giusto riconoscimento, ripercorrendo dettagliatamente tutta la sua carriera (cinematografica, televisiva, teatrale e radiofonica).
Pleasence rientra nel novero dei grandi attori “obliqui” alla Boris Karloff o alla Christopher Lee, due giganti a cui hai dedicato altrettanti riuscitissimi volumi. Al di là della passione personale, facilmente condivisibile, qual è l’interesse critico che ti spinge ad analizzare con estrema accuratezza la carriera di attori simili? Ad emergere, dalla lettura dei tre volumi, è quasi una storia del cinema parallela a quella ufficiale…
F.G.: L’interesse critico è per quelle figure del cinema che, almeno in Italia, non hanno avuto l’attenzione necessaria. Trovo abbastanza curioso che, ad esempio, fino al mio libro su Boris Karloff non sia mai uscito un saggio in italiano su quel grande attore. Il pregiudizio verso i generi cinematografici, e verso l’horror in particolare, è radicato e di antica data. Anche oggi che tale pregiudizio sembra lasciare il posto a un gusto per l’insolito cinematografico che si spinge fino al trash, a pubblicare il mio libro non è stata una casa editrice specializzata nel cinema (poche, ma ne esistono ancora), ma un editore di nicchia come Profondo rosso. E altrettanto si potrebbe dire di Christopher Lee, che pure aveva già avuto un omaggio italiano con un volume di brevi saggi, guarda caso ancora per Profondo rosso. Con Pleasence siamo a un attore che ha avuto lunghi periodi mainstream, e quindi gradito apparentemente alla critica cinematografica ufficiale, ma con la “colpa” di aver transitato permanentemente nel cinema di genere in tutte le sue sfaccettature.
Come altri attori della sua eletta schiera, Pleasence ha partecipato ad un numero veramente importante di titoli, tra cinema e tv, mischiando continuamente alto e basso. Quanto il fascino del corpo attoriale di Pleasence per lo spettatore è legato anche a questo?
F.G.: Devo dire che lo spettatore “medio” difficilmente conosce il nome di Donald Pleasence, ma di certo ha visto almeno un suo film e ricorda il suo volto senza essere in grado di associare il nome all’interprete. E’ il destino degli attori che non entrano nel circuito mediatico del gossip e dell’esibizionismo, pur avendo un curriculum cinematografico di tutto rispetto. Quando stavo scrivendo il libro con Tentori, spesso a chi dicevo che ero al lavoro su una biografia di Donald Pleasence veniva spontanea la domanda: “Chi?” E parlo anche di persone molto attente al cinema. Poi gli ricordavo Halloween, Cul-de-sac, Phenomena… e subito corpo e volto di Pleasence tornavano alla memoria.
La scena dei “giovani arrabbiati” e l’amore ricambiato per la drammaturgia di Harold Pinter che confluiscono nel film preferito dallo stesso attore, “The Caretaker”, rimandano forse alla volontà spesso disattesa dalle circostanze economiche di cesellare una carriera più “alta”, diversa da quella che poi è stata. Credi che sia un punto di vista condivisibile?
F.G.: In realtà Pleasence ha sempre avuto un lato “alto” della sua carriera. In teatro e alla radio era attivissimo. Il cinema aveva per lui soprattutto un’attrazione “alimentare”, nel senso che gli consentiva guadagni discreti per condurre una vita da benestante. Non si è però mai lamentato troppo per la sua carriera complessiva, in fondo prestigiosa e con riconoscimenti notevoli.
Gli occhi di ghiaccio, una sottile perversione che emerge dai tratti somatici e la mimica ricchissima fanno di Pleasence l’interprete perfetto per il villain, sebbene il registro brillante, comico o meglio grottesco, gli sia ugualmente congeniale. Quali sono i picchi dei due ambiti recitativi?
F.G.: Tra i suoi villain, il più iconico è rimasto senz’altro Blofeld per 007 Si vive solo due volte. Nel registo grottesco, ma con sfumature drammatiche, direi che il suo ruolo più importante è stato quello del nevrotico intellettuale di Cul-de-sac.
Da Carpenter a Lucas, da Polanski a Altman, da Demy a Chabrol, Kazan, Lattuada, Argento, Sturges, Fleischer, Siegel, la filmografia di Pleasence mette insieme il meglio del cinema mondiale. Chi ha meglio saputo cogliere il talento recitativo dell’attore?
F.G.: Tutti lo hanno saputo valorizzare, anche altri registi minori che gli hanno dato ruoli da protagonista e non solo collaterali. Forse Carpenter ne ha colto in modo particolare le potenzialità, affidandogli un personaggio come il dottor Loomis che non a caso Pleasence interpreterà più volte nella saga di Halloween.
Il rapporto con il nostro Paese è stato così privilegiato da Pleasence da meritare un capitolo a sé nel libro. Possiamo parlarne?
F.G.: Era molto apprezzato dai registi italiani per la sua professionalità. Come Christopher Lee, metteva tutto il suo talento anche al servizio di film chiaramente di serie B o maldestramente costruiti. Non c’era differenza, per quei grandi attori, tra il recitare al massimo delle loro possibilità in un film a basso costo o in un kolossal, in un film d’autore o in un prodotto eminentemente commerciale. Davano sempre il meglio, ognuno con il suo carattere particolare che a volte poteva mettere alla prova produttori e registi, ma garantivano sempre la soddisfazione di chi li aveva scelti.