L’angolo di Michele Anselmi
Accadde tutto per una canzone, una descrizione insieme terrificante e lirica dei linciaggi ai danni dei neri praticati dai bianchi nel profondo Sud americano, anni Trenta. Il primo verso faceva così: “Southern trees bear a strange fruit / Blood on the leaves and blood at the root / Black bodies swingin’ in the Southern breeze / Strange fruits hangin’ from the poplar trees” (“Gli alberi del sud danno uno strano frutto / Sangue sulle foglie e sangue alla radice / Corpi neri oscillano nella brezza del sud / Strani frutti appesi ai pioppi”).
Esce oggi, giovedì 5 maggio, targato Bim, un film che si chiama “Gli Stati Uniti contro Billie Holiday”: l’ha scritto e diretto il regista afroamericano Lee Daniels, classe 1959, quello di “Precious”, e quasi stenti a credere che la magnifica cantante di “All of Me” abbia dovuto subire per oltre un decennio, fino alla morte avvenuta nel 1959 a soli 44 anni, una tale persecuzione, occhiuta e infame, ad opera dell’Fbi di Hoover.
Invece andò proprio così: Billie Holiday, nera di Filadelfia, al secolo Eleonora Fagan, finì nel mirino di un alto funzionario della “Narcotici”, tal Harry J. Anslinger, affinché non eseguisse più in pubblico “Strange Fruit”, considerata “una canzone comunista, un incitamento alla rivolta”.
Il film, lungo oltre due ore, racconta la vicenda in una chiave di andirivieni temporale: si parte dal 1957, con un’intervista radiofonica, per subito tornare al cruciale 1947 e ricostruire i fatti che portarono la cantante, detta “Lady Day”, prima in carcere per un anno, poi privata della licenza per esibirsi in pubblico, infine, con un salto in avanti, nell’ospedale dove sarebbe morta senza il metadone utile a lenire i dolori e con un piede ammanettato al letto.
Non che Billie, incarnata con bel piglio fisico/vocale dall’attrice e cantante Andra Day, fosse una donna docile, facile da frequentare. Eroinomane, bisessuale, egocentrica, tormentata dal ricordo di uno stupro subito da ragazzina, la “signora del blues” diventò in pochi anni una star apprezzata anche dal pubblico bianco; e proprio per questo motivo da schiantare, incastrandola sulla droga, prima che la sua “Strange Fruit” ascendesse a macabro e toccante inno planetario contro la ferocia razzista (solo negli anni Sessanta “Time” la elesse “canzone del secolo”).
Il film va sul classico, nello stile e nella ricostruzione d’ambiente, ma incuriosisce, rispetto agli standard hollywoodiani, la notevole audacia sfoderata dal regista nel filmare le scene di nudo e di sesso, funzionali al ritratto di questa donna corteggiata, avvenente, e tuttavia incapace di vivere l’amplesso con tenerezza, come se conoscesse un solo modo di “farlo”.
Naturalmente Lee Daniels scegli un punto di vista, nell’orchestrare la cine-biografia: ed è lo strano rapporto affettivo che si stabilì tra Billie Holiday, sposata due volte e spesso picchiata dai mariti, con un agente nero sottocopertura, un certo Jimmy Fletcher, è l’attore Trevante Rhodes, mandato da Anslinger perché spiasse la cantante in modo da poterla meglio arrestare e processare.
Risuonano canzoni epocali, come “God Bless the Child” o “Solitude”, in questo film malinconico e tragico, interessante forse più per la storia che racconta che per come la racconta. Ma certo “Gli Stati Uniti contro Billie Holiday” non lascia indifferenti, specie quando scopri, sui titoli di coda, che il razzista Anslinger qualche anno più tardi sarebbe stato premiato in pompa magna, per i suoi “meriti”, dal presidente Kennedy.
Michele Anselmi