L’angolo di Michele Anselmi

Onore a François Ozon, perché non fa un film uguale all’altro. Prendete gli ultimi tre: arriva “Grazie a Dio”, che ricostruisce un atroce caso di pedofilia coperto a lungo dalla Chiesa francese; due anni fa uscì “Doppio amore”, un thriller psicoanalitico a forte gradazione erotica; l’anno prima “Frantz”, uno struggente melodramma in bianco e nero sui rapporti tra francesi e tedeschi subito dopo la Prima guerra mondiale. A suo modo Ozon mi ricorda certi cineasti hollywoodiani, diciamo tra Rob Reiner e Lawrence Kasdan, capaci di sperimentare i generi più diversi senza smarrire una qualità d’autore.
“Grazie a Dio”, nelle sale da giovedì 17 ottobre con Academy Two, non è la versione transalpina di “Il caso Spotlight”, anche se sarà promosso così. Nel bel film americano è il giornalismo d’inchiesta a condurre il gioco, sia pure nel confronto sempre più doloroso con le vittime dei sacerdoti pedofili; qui sono le vittime stesse di quelle “attenzioni” ripugnanti a trovare la forza di rimettersi in gioco, tre decadi dopo, denunciando il mellifluo padre Bernard Preynat che abusò di loro nei campeggi dei boyscout e in parrocchia. Ma se la prospettiva è diversa entrambe le storiacce sono tratte dalla cronaca, fanno nomi e cognomi senza infingimenti.
Occhio al titolo. “Grazie a Dio… tutti questi fatti sono prescritti” si difende, durante una conferenza stampa, il potente cardinale di Lione, Philippe Barbarin, che per anni ha saputo e coperto, mai punendo Preynat e quelli come lui. Frase infelice, infatti un giornalista gli fa notare la bestialità insita. Nel 2019 Barbarin sarà condannato a sei mesi con la condizionale “per omessa denuncia di maltrattamento”, ma papa Francesco, purtroppo, respingerà le sue dimissioni. Quanto a padre Preynat, la condanna per ora è arrivata solo dal processo canonico, con la riduzione allo stato laicale; il processo penale è ancora in alto mare, a causa dei reati caduti in prescrizione (fino al 2018 il limite massimo era di vent’anni, poi portato a trenta).
Il film, teso e documentato, racconta “il risveglio” di tre quarantenni che furono molestati da quel prete sul finire degli anni Ottanta e adesso, ormai adulti, provano a sconfiggere i loro fantasmi.
Siamo nel 2014, a Lione appunto. Alexandre Guérin, cattolico, padre di cinque figli, felicemente sposato, scopre per caso che quel sacerdote lavora ancora a contatto con i bambini. Deciso ad andare fino in fondo, dopo un grottesco incontro con il carnefice ormai invecchiato che ammette tutto dicendosi “malato”, Alexandre si ritrova al cospetto di un muro di gomma. A quel punto cerca di mobilitare l’opinione pubblica, dopo aver denunciato i fatti alla magistratura. Gli danno man forte, una volta sconfitto il senso di vergogna, altri due ex-boyscout che furono abusati: il corpulento e ateo François Debord, il fragile e traumatizzato Emmanuel Thomassin.
Lungo quasi due ore e venti, magari troppo, “Grazie a Dio” disciplina i modi dell’indagine all’affresco corale, coinvolgendo nella storia mogli, amanti, figli, genitori, amici dei tre accusatori. Naturalmente Ozon, premiato col Leone d’argento a Berlino 2019, evoca zone d’ombra, ambiguità morali, silenzi tormentati; senza scorciatoie, ma evidenziando come l’abominio pedofilo si sviluppi in un omertoso contesto cattolico teso a sottovalutare la gravità dei crimini.
Una volta costruito lo sdegno, sono però i personaggi a ispessire il fattore umano nel mix di vendetta e frustrazione: Melvil Poupaud, Denis Ménochet, Swann Arlaud incarnano rispettivamente Alexandre, François, Emmanuel, e specie quest’ultimo resterà nel cuore dello spettatore per come apre una squarcio inedito sui danni, anche fisici, provocati su un ragazzino dalle molestie sessuali.

Michele Anselmi