Ora in libreria per l’editore Leima, Guardatevi dalla Luna. Il cinema dei licantropi, senza dubbio in campo italiano, ma con buona probabilità anche fuori dai confini nazionali, è lo studio più approfondito finora licenziato sul tema. Ne abbiamo parlato con l’autore, il saggista e esperto di fantastico Stefano Leonforte, che ringraziamo per la disponibilità e per la mole di suggestioni che ha evocato, semplicemente, rispondendo alle nostre domande.
Stefano, al di là della passione personale per l’argomento, puoi illustrarci il metodo di lavoro e le fonti utilizzate per il tuo nuovo saggio?
Stefano Leonforte: Certamente la passione per il Fantastico, e in questo caso per un’icona estremamente affascinante ma non troppo frequentata in ambito saggistico, ha rappresentato l’impulso alla base del progetto. Sapevo di non voler affrontare l’argomento adottando un approccio dizionaristico, bensì storiografico, rigoroso sul piano “filologico” e al tempo stesso narrativo. Una sorta di “romanzo” che raccontasse nel dettaglio l’epopea del licantropo di celluloide. In primis ho compilato una filmografia che è poi andata man mano perfezionandosi, o dovrei dire assottigliandosi. È sorprendente scoprire quante opere “incongrue” compaiano in molte filmografie considerate attendibili. Film che spesso e volentieri, penso a esempio a The Beast Within, con la licantropia hanno davvero poco a che fare. In seguito il lavoro è proseguito su un doppio binario. Da un lato colmare le lacune, ovvero reperire e visionare quei film che ancora non avevo analizzato. Dall’altro determinare quali titoli fossero giunti al mercato italiano, e soprattutto in che modo. Se distribuiti nelle sale, quindi passati in censura, oppure “inediti” ma comunque doppiati e approdati in un secondo momento al mare magnum delle emittenti tv di casa nostra. Nel primo caso, e ci tengo a ringraziare anche in questa sede Maurizio Grillini, Pier Luigi Raffaelli e Gabriele Bigonzoni, ho avuto modo di visionare i fascicoli censura all’Archivio Revisione Cinematografica della Direzione Generale per il Cinema di Roma. Nel secondo sono risalito alla “prima” televisiva affidandomi ai palinsesti riportati nei quotidiani nazionali dell’epoca in esame. Va da sé che la ricerca bibliografica si è rivelata incessante lungo tutto l’arco del lavoro. Il libro, tra periodici come Fangoria, Starburst e Cinefantastique, dailies degli anni Dieci e successivi come Moving Picture World e Film Daily e saggistica internazionale, senza contare le sceneggiature, i fascicoli censura e le annate del fondamentale Giornale dello Spettacolo, per cui ringrazio Gabriele Spila, conta più di seicento voci bibliografiche.
A colpire il lettore è la facilità che dimostri nel raccontare storie di cinema appassionanti, un elemento non da poco se si considera la levatura scientifica del tuo volume. Come riesci a bilanciare i due aspetti?
S.L.: Be’, a dire il vero non credo di potermi attribuire questo merito. Per meglio dire non ritengo che l’armonia nel conciliare questi aspetti dipenda esclusivamente da me. Sono convinto che se alla base di un testo c’è una solida ricerca, condotta con rigore e meticolosità, le storie finiscano quasi per raccontarsi da sole, e in modo quasi sempre, o è almeno questo il mio pensiero, appassionante. Uno studio attento e scrupoloso offre singoli mattoncini che uno sull’altro, integrati da quello che potremmo definire un “congetturare consapevole e controllato”, vale a dire il completamento di quei puntini che rappresentano le “zone oscure” non del tutto documentabili, formano una parete tanto solida sul piano scientifico quanto accattivante su quello letterario.
Il licantropo non ha alle spalle fonti letterarie forti come quelle del vampiro, ma il suo mito affonda le radici fin nella cultura greca. In che modo queste stratificazioni sedimentano nelle varie trasposizioni cinematografiche?
S.L.: La credenza che l’uomo possa mutare in animale ci accompagna sin dall’alba dei tempi. Il libro stesso nasce da una semplice riflessione: ogni cultura prevede una mitologia della metamorfosi zooantropica. E al licantropo in particolare alludono già Erodoto e Ovidio, poi Petronio nel Satyricon. È un mito che affascina da sempre. Tuttavia, a differenza di quanto accade nel caso del vampiro, il licantropo difetta di un’opera letteraria “seminale”. Probabilmente, nel ricchissimo panorama di racconti e penny dreadful che trattano l’argomento, fermo restando il licantropo sui generis incarnato da Henry Jekyll, il solo romanzo che possa aspirare al titolo di “classico mannaro” è The Werewolf of Paris di Guy Endore, pubblicato nel 1933. Fatto sta che una licantropa, dettaglio significativo, era già approdata al cinema vent’anni prima con The Werewolf di Henry MacRae, ispirato a una leggenda Navajo e a un racconto di Henry Beaugrand pubblicato sul finire dell’Ottocento su The Century Magazine. Anche il successivo The White Wolf fa riferimento all’immaginario pellerossa. A dire che il mannaro cinematografico delle origini ha poco a che vedere col complesso mitologico classico. In seguito penserà la Universal a creare una mitologia che perdura ancora oggi, slegata tanto dalla cultura greca quanto dal folklore medievale. Si tratta di uno degli innumerevoli punti di contatto tra vampirismo e licantropia. L’invenzione cinematografica. La luce del sole che polverizza il succhiasangue è farina del sacco di Grau, Galeen e Murnau per Nosferatu.
Nonostante sia preceduto da Il segreto del Tibet, a mettere nero su bianco la mitologia del licantropo è L’uomo lupo in cui Curt Siodmak indica in filigrana anche la condizione del popolo ebraico agli albori del nazismo…
S.L.: Il segreto del Tibet ha il merito d’introdurre i grandi topoi del plenilunio e del “morso fatale”, per lo più assenti in ambito folklorico, oltre naturalmente all’aspetto antropomorfo del mostro. Quanto alla luna piena, va detto che Petronio collocava l’episodio licantropesco cui assiste Nicerote in una notte in cui la luna “brillava come a mezzogiorno”. Ma è chiaro che stiamo entrando in un groviglio di simboli e allusioni tanto suggestivo quanto laocoontico. Tornando a noi, le radici della licantropia come oggi la conosciamo affondano come dicevi giustamente nello script di L’uomo lupo redatto da Siodmak. E non è un caso che sia stato proprio lui, ebreo tedesco fuggito dalla “Germania degli orrori” di Hitler, a plasmare la più tragica delle creature della notte. Siodmak non solo concepisce una inedita mitologia fondata su una serie di motivi poi divenuti universali, dalla Stella a Cinque Punte, macabro sostituto della Stella di David, all’argento e al celebre distico “Persino un uomo che è puro nel cuore e dice le sue preghiere la sera, può diventare un lupo quando l’aconito è in fiore e la luna d’autunno risplende”, ma concentra nello sventurato Larry Talbot le amarezze del proprio recente passato. La struttura del film è mutuata dalla Tragedia greca: come Siodmak, costretto a fuggire dal Nazismo, l’uomo lupo si strugge nell’amara impossibilità di controllare il proprio destino. E c’è l’ombra della svastica dietro la sua parabola. La shoah, non dimentichiamolo, investe il lupo di connotati malevoli e nefasti per il popolo ebraico, in particolare per il fascino esercitato dal predatore su Hitler, fiero tra le altre cose che il proprio nome derivasse dall’antico Athawolf, “nobile lupo”. Anche l’ebreo David di Un lupo mannaro americano a Londra sogna una mostruosa squadriglia di SS che trucidano i suoi cari riuniti in salotto a godere dei Muppet. In questo senso il passo da Siodmak a Landis è assai breve.
Wolfen, Un lupo mannaro americano a Londra e L’ululato, in quel 1981 che sarà ricordato come l’anno del licantropo, aprono tre possibili declinazioni del racconto di lupi mannari che avranno diverse filiazioni fino al Wolf – La belva è fuori di Nichols…
S.L.: Wolfen rappresenta un caso a parte. Un’eccezione che ha poco o nulla a che spartire non soltanto con i precedenti Universal, ma con la licantropia tout court. Non è un film di lupi mannari, piuttosto un raffinato concentrato di suggestioni mannare entrato a torto o a ragione, e proprio in virtù della diffusione nelle sale tra L’ululato e il Mannaro americano, nell’immaginario del licantropo cinematografico. Ecco perché nel libro ne parlo diffusamente, ricostruendone la lunga, controversa e a tratti surreale gestazione. Ed è curioso che la nobilitazione del genere in chiave esistenziale tentata da Nichols con Wolf occhieggi tanto sfacciatamente, sia sul piano allegorico che figurativo, e penso ai lupi che osservano immobili e solenni Jack Nicholson nell’incipit del film, questa bella ma sfortunata pellicola di Wadleigh. Per quanto riguarda Dante e Landis, viceversa, si tratta di film molto diversi tra loro che condividono uno sguardo appassionato per quanto li precede nonché il merito di riaccendere l’interesse per il genere valorizzando le potenzialità dell’effetto prostetico attraverso le metamorfosi “live” firmate Rick Baker, che mise lo zampino in entrambe le pellicole, e Rob Bottin. L’ululato, acutissimo gioiellino gravido di omaggi alla storia del Fantastico, tralascia buona parte del credo siodmakiano e si rifà dichiaratamente ai dettami del folklore. Dante dichiarò di essersi ispirato alle antiche xilografie, e se da un lato i suoi mannari temono l’argento, dall’altro se ne infiaschiano del plenilunio e mutano la propria forma a piacimento. È un film sorprendente, godibilissimo e dall’anima duplice, a un tempo arcaica e moderna, persino postmoderna per come celebra l’ingresso del licantropo nel nostro orizzonte mediatico. I lupi mannari vi si ergono a riferimento culturale. Sono ovunque: nei libri, sulle pareti e in tv, tra cartoon, telegiornali e classici Universal. Tra l’altro lo considero un fenomenale saggio di montaggio, e la scena in cui Dee Wallace racconta per telefono la disavventura del marito, morso da un lupo, e sullo schermo sfilano le immagini de L’uomo lupo con la zingara Maleva che profetizza sventura per coloro che sono morsi da un mannaro, è a dir poco magnifica. Da par suo Landis rammenta il cupio dissolvi di Talbot e riammanta dell’atavica tragicità la figura del licantropo. Il suo protagonista, un giovane americano “divorato” dall’ostile Vecchio Mondo, è una moderna rivisitazione dell’uomo lupo Universal. Certo, in questo caso è rappresentato come una sorta di segugio preistorico, ma nel film fanno capolino la Stella a Cinque Punte e sono citati, tra gli altri, Chaney Jr. e Claude Rains. Inoltre trovo delizioso il breve passo in cui David Naughton cita L’uomo lupo e la dolce infermiera Jenny Agutter, inglese, ribatte: “Quel film con Oliver Reed?”, riferendosi naturalmente all’hammeriano L’implacabile condanna. Inutile dire che si tratta di due pietre miliari.
Qual è l’importanza della serie di film sul licantropo Waldemar Daninsky a cui dedichi un capitolo?
S.L.: È una serie fondamentale non solo per il genere licantropesco, ma per il cinema popolare tout court. Daninsky, eroe romantico e maledetto, cristallizza nel tessuto del Fantastico in celluloide la struggente condizione “proletaria” del licantropo, abbracciando una lunga e densissima fase, dalla fine dei Sessanta ai Novanta e ai primissimi Duemila, con le sue ultime, opache epifanie, del sottobosco cinematografico e, più in generale, della storia politica e culturale spagnola. La sua parabola rappresenta un omaggio appassionato all’immaginario gotico e orrifico tradizionali, e viene a intrecciarsi in modo spesso commovente a quella del suo ideatore “Paul Naschy”, alias Jacinto Molina. Il suo è un cinema genuino, sincero, sanguigno ed entusiasta. Talvolta maldestro, ma sempre e comunque vero. Di pochi mezzi ma tanto cuore.
Anche il Dark Universe Universal – ancora una volta, come insegna la storia non sempre fortunata del Licantropo di celluloide – rifiuta un reboot per Larry Talbot. L’insuccesso del film con Del Toro ha avuto un effetto sulle scelte della compagnia?
S.L.: A far naufragare i piani dello Studio, più che il deprecabile remake con Del Toro, sono stati gli sciagurati Dracula Untold e La mummia. Qualcosa si sta muovendo, sia pure in sedicesimo rispetto alle iniziali ambizioni del Dark Universe. Penso al prossimo L’uomo invisibile. In ogni modo se l’intenzione era trattare, anzi maltrattare nuovamente l’uomo lupo così come è stato maltrattato il conte Dracula in Dracula Untold, film che reputo offensivo, allora tanto meglio che il progetto sia sfumato.
A sei anni dalla pubblicazione del tuo sontuoso volume sulla Hammer, che presentammo qui su Cinemonitor, torni a collaborare con Leima. Come avete lavorato?
S.L.: Posso solo dire che confezionare un volume di questa mole, vista la ricchezza dei riferimenti bibliografici e l’impostazione filologica, richiede molto lavoro e anche molto coraggio, trattandosi di un mercato, quello legato alla saggistica cinematografica, di nicchia. Pertanto devo ringraziare il mio editore e lo staff Leima al completo per l’impegno e la passione profusi nel progetto.