“Guida al cinema horror – Dalle origini del genere agli anni Settanta” è la prima parte cronologica dell’enciclopedia “Guida al cinema horror” pubblicata da Odoya, il cui primo volume, uscito nel 2015, prende in esame il genere dagli anni Settanta ad oggi. Con un inaspettato e graditissimo flashback, Michele Tetro, Roberto Azzara, Roberto Chiavini e Stefano Di Marino analizzano e raccontano ora un arco di tempo ben più ampio che, inevitabilmente, risulta meno noto agli spettatori. Ne abbiamo parlato con gli autori.

Al netto di un approccio metodologico che appare omogeneo con “Guida al cinema horror – Il New Horror dagli anni Settanta ad oggi”, quali differenze avete riscontrato nel trattare i due macro-periodi, considerando anche la distanza temporale che ci separa da film come “Lo studente di Praga” o “Faust”?

Michele Tetro: Be’, nel mio caso particolare ho affrontato con più voglia e passione l’argomento, per il semplice fatto che non mi piace né interessa più l’horror dei giorni nostri e occupandomi del libro precedente lo avevo fatto limitatamente a determinati temi nelle mie competenze e non adoperandomi per altri, per i quali avrei avuto anche una scarsa conoscenza. Per lavori del genere è davvero preferibile l’impiego di più autori, anche a livello di onestà di pensiero e rispettando l’esigenza di proporre un’opera che fosse più obiettiva possibile e lontana dalle lusinghe del piacere o del parere personale. Le mie preferenze sono sempre andate all’horror cinematografico classico, che si esaurisce negli anni Settanta: quindi, in questo arco di tempo, mi sarei trovato del tutto a mio agio nell’affrontare qualsiasi argomento ad esso inerente. È naturale che, per questo secondo libro che è cronologicamente precedente all’altro, avremmo trattato tematiche e pellicole chiuse nella loro bolla temporale del passato, definitive, senza dover affrontare il grande problema della proliferazione del genere che avrebbe reso (e di fatto lo fece) il volume successivo un continuo “work in progress”, per il quale già ci sarebbe bisogno di un notevole aggiornamento. Ecco, la differenza fondamentale nel redigere questa nuova guida, per me, è stata il valore aggiunto che mi avrebbe permesso di parlare di film, epoche e periodi che prediligevo più di altri.

Roberto Azzara: Per me non c’è stata nessuna differenza per il semplice fatto che non ho partecipato alla stesura del volume precedente. All’epoca ero un semplice lettore e quando conobbi Michele una delle prime cose che gli chiesi fu proprio se agli autori avessero intenzione di realizzare anche un volume che trattasse le origini del genere. Non avrei mai pensato che, più di un lustro dopo, avrei contribuito alla sua realizzazione.

Roberto Chiavini: Personalmente ho trovato relativamente semplice calarmi nel cinema horror precedente agli anni Settanta, per averlo conosciuto piuttosto bene nei decenni scorsi, ed ero sempre stato favorevole, sin dall’inizio, al completamento dell’opera. La mia partecipazione ai testi è stata poi piuttosto limitata e ho potuto concentrarmi quindi su argomenti che m’interessavano particolarmente, come il cinema antologico della Amicus e altri aspetti del genere abbastanza di nicchia.

Questo viaggio nelle camere oscure dell’orrore su grande schermo, come accade per gli altri volumi Odoya e specialmente per il suo gemello, è fatto di capitoli affidati a più autori. Come avete coordinato il volume, riuscendo a dare unità al tutto? In sintesi, quali sono state le linee guida che avete seguito?

MT: Questa volta, avendo preso le redini del nuovo progetto editoriale, che tra l’altro vede in campo due nuovi scrittori (Roberto Azzara, con cui ho coordinato il volume, e Stefano Di Marino) al posto di altrettanti autori del volume precedente, è parso subito evidente che non potevamo riproporre lo schema dell’altro libro, incentrato prevalentemente sulle figure iconiche del genere horror con capitoli portanti a loro dedicati (per intenderci vampiri, fantasmi, case stregate, serial-killer, zombi), ma dovevano concentrarci di più su periodi specifici che ci avrebbero consentito di sviscerare la materia trattata più a livello cronologico, a blocchi ben distinti e autoconclusivi. Quindi ci siamo soffermati, nella nostra analisi, sul periodo del muto, del primo sonoro, dei mostri della Universal, dell’epoca RKO, Hammer, AIP e Amicus, del gotico italiano, dell’horror cinematografico in lingua inglese e in quello proveniente dal resto del mondo etc. Ciascuno di noi ha ovviamente scelto l’argomento più in sintonia con i propri gusti o interessi, nel mio caso prevalentemente l’Universal, la Hammer, l’AIP e il fanta-horror. A materiale raccolto, io e Roberto Azzara abbiamo correlato il tutto in una forma finale coerente e armoniosa.

RA: Avevo già avuto modo di collaborare con Michele, realizzando l’anno prima “I due volti del terrore – La narrativa horror sul grande schermo”, sempre per Odoya. Fin dall’inizio della realizzazione di quel volume ci siamo resi conto che il nostro approccio agli argomenti da trattare non era poi molto dissimile; un affiatamento “naturale” che ci ha permesso di intervenire ognuno sui capitoli dell’altro senza che la cosa si notasse. A quel libro, a differenza di questa “Guida” composto da schede e box tematici, avevano collaborato anche Roberto Chiavini e Stefano Di Marino; quindi, per me, è stato come riunire la vecchia band, suonando ognuno il proprio strumento, per poi amalgamare il tutto in fase di mixaggio e creare una melodia, come ha scritto Michele, coerente e armoniosa.

Contrariamente a quanto spesso fa la critica cinematografica, che sull’autore – quasi sempre identificato con il regista e raramente con lo sceneggiatore – pianta il perno intorno al quale far girare l’intera analisi, nel vostro libro avete lodevolmente dato spazio agli attori, da Conrad Veidt a Lon Chaney, da Boris Karloff a Barbara Steele fino a Peter Cushing e Christopher Lee… Possiamo parlare di questa prospettiva?

MT: Direi fosse inevitabile. L’horror classico, spesso più che un tema o un argomento specifico, era facilmente legato a un volto noto e immediatamente identificabile col genere. Forse non tutti gli attori potrebbero trovare giovamento nel sentirsi costretti e confinati specificatamente in un singolo genere, ma se si parla dei nomi che hai citato è evidente che li si rapporta subito all’horror, prima che a qualsiasi altro contesto. Boris Karloff è la creatura di Frankenstein, Lon Chaney è il Fantasma dell’Opera, Peter Cushing è Van Helsing o il barone Frankenstein, Christopher Lee è Dracula, Barbara Steele è la strega rediviva… questi attori erano l’effetto speciale di loro stessi, la loro recitazione era il motore vero del film che interpretavano, la loro presenza “serializzata” era una garanzia di qualità. Essi stessi erano il film.

RA: Sì, la critica cinematografica lo fa, e anche noi abbiamo trattato dei registi che con le loro opere hanno lasciato il segno nell’evoluzione del genere, dagli espressionisti tedeschi a James Whale e Tod Browning, da Val Lewton a Roger Corman a Terence Fischer, per esempio, ma quello che al pubblico resta impresso è il volto degli attori, spesso nascosto da maschere mostruose ma comunque riconoscibile. E questo è un fattore valido oggi come allora, basti pensare alla popolarità, anche se relegata al solo pubblico dell’horror, raggiunta da attori come Robert Englund, Bruce Campbell, Tony Todd, Doug Bradley o Tony Bell e tanti altri, subito identificati come icone del genere. Magari loro malgrado, perché, come ricorda Michele, questa “riconoscibilità” ha condizionato tutta la loro carriera. Certo, a parere di chi scrive, attori come Veidt, Price, Lee o Cushing, rispetto quelli che ho citato, avevano tutto un altro carisma…

RC: Forse più che in altri generi cinematografici l’attore caratterizza una buona parte del cinema horror e questo fin dalle origini (basta pensare a come icone del cinema dell’orrore come Karloff, Chaney Jr., lo stesso Lugosi, siano state recuperate in tempi poi molto successivi al loro acme attoriale, per cameo spesso persino offensivi, ma che oggi sarebbero visti come “chicche” dai fan delle nuove generazioni). Questo avviene ancora oggi, quando il cinema horror si è ulteriormente serializzato e i personaggi (e quindi i loro interpreti) hanno definitivamente preso il sopravvento sopra trame e sceneggiature.

Parliamo di storia del genere. In termine di evoluzione – di stili e tecniche certamente, ma anche di progressione di tematiche – il salto maggiore nel cinema dell’orrore è avvenuto dall’origine agli anni Settanta oppure dagli anni Settanta a oggi?

MT: Mah… direi che vi siano stati più salti qualitativi da rilevare, il primo dei quali, indubbiamente, fu quello che riguarda il passaggio dal muto al sonoro. Questa fu, da parte del pubblico, la conquista di un’inedita sensorialità che s’affacciava su un nuovo universo percettivo che nel buio della sala cinematografica (molto simile a quello della mente in ciascuno di noi) assumeva valenze di vastissima portata per la psicologia dello spettatore, una configurazione audio-visiva peculiare dell’universo della paura. Udire il rumore di tuoni terrificanti e il sibilare del vento, lo scricchiolio di porte di legno nel buio, passi pesanti nella notte o rochi sussurri, urla improvvise di giovani donne, catene sferraglianti, latrati di animali feroci invisibili nelle tenebre, tutto questo costituiva uno straordinario serbatoio di pulsioni che andavano accumulandosi negli spettatori fino a raggiungere un livello emotivo intensissimo, scaricandosi poi con salutare effetto catartico. Poi, indubbiamente, vi fu l’altro grande salto degli anni Settanta, del quale si è occupato nel libro Roberto Azzara…

RA: Sì, penso anch’io che il più grosso salto per il genere, per tutti i generi cinematografici in realtà, fu il passaggio dal muto al sonoro, che per molti decreta la vera nascita dell’horror, come se senza sonoro non potesse esistere un vero cinema del terrore. Quello che portò invece alla nascita del New Horror, come scrivo nel capitolo conclusivo del libro, fu certamente epocale ma in un certo qual modo solo per il grosso pubblico, perché già horror slegati da suggestioni gotiche e ancorati alla realtà del presente, sporchi, violenti e cattivi si erano visti anche prima della fatidica data del 1968, solo che passavano inosservati ai più. Probabilmente il pubblico della fine degli anni Sessanta era invece più ricettivo verso pellicole provocatore come “Rosemary’s Baby” o “La notte dei morti viventi”, rispetto a quando Browning realizzava il suo sconvolgente “Freaks”. Lo spirito dei tempi era cambiato, il grande fermento culturale, sociale e politico che si stava sviluppando in quasi tutto il mondo stava facendo sentire la propria influenza anche sul cinema. Fino ad allora si era assistito a un predominio dell’immaginario gotico vittoriano ma mummie, vampiri, fantasmi, vecchie magioni e antichi cimiteri non facevano più paura. Insorsero altre suggestioni ben più ancorate alla realtà e alla situazione sociale contemporanea, riflesso di una società che si stava abituando a vedere immagini violente nei telegiornali della sera. Ciò non portò al completo abbandono dei binari percorsi fino a quel momento ma ormai una nuova strada era stata tracciata e l’interesse del pubblico era irreversibilmente indirizzato verso questo nuovo altrove, lasciando l’horror fatto di suggestioni e ombre agli appassionati più vecchi e nostalgici, come noi.

RC: All’interno della storia del cinema dell’orrore vi sono stati numerosi “salti evolutivi”, a partire da quello del muto al sonoro, paragonabile all’estinzione dei dinosauri, per proseguire nella metafora. Ve ne sono poi stati tanti, più o meno rilevanti, che finirono per focalizzarsi nella nascita del New Horror, di cui abbiamo parlato nel precedente volume. Se è pur vero che il seme di tutto quanto visto negli ultimi decenni aveva provato a germinare fin dalle origini – come nota Azzara riguardo a “Freaks”, per esempio – solo con il New Horror il terreno era stato sufficientemente lavorato da permettere un vero e proprio raccolto e non qualche sporadico frutto, talora scartato come erbaccia.

Siamo d’accordo sul fatto che le classifiche lasciano il tempo che trovano, ma nessuno può negare che siano veramente divertenti! All’inizio di ogni capitolo stilate una lista di film “da non perdere”: in alcuni casi, la selezione appare quasi obbligata, ma ci sono anche sorprese non da poco (come “Amore folle”, “Il giglio nero”, “L’uomo senza corpo”, “Il bianco pastore di renne”). Come li avete scelti?

MT: Potrei rispondere sulla base delle nostre preferenze personali, ma anche su un più obiettivo riscontro di notorietà delle pellicole in questione, rispetto a un pubblico generalizzato. Fortunatamente oggi è molto più facile di un tempo poter recuperare alla visione certi film poco noti o dimenticati. Un minimo d’indicazione di base da offrire ci è sembrata cosa lecita, e poi era stilisticamente coerente con il volume precedente.

RA: Abbiamo pensato di trovare una via di mezzo tra le nostre preferenze personali e l’effettiva importanza del titolo da citare, cercando di proporre anche dei titoli non scontati ma di indubbia qualità. In questo ci è venuto in aiuto l’aver affiancato alla lista dei film “da non perdere” quella dei film “da riscoprire”.

Il capitolo 10, “L’epoca del gotico italiano”, è firmato Stefano Di Marino, cui avete dedicato il volume. Cinemonitor ha avuto il piacere e l’onore di intervistare Stefano più volte in questi anni e ci piacerebbe ricordarlo insieme, magari consigliando ai lettori qualcuno dei suoi molti lavori…

MT: Abbiamo avuto la notizia della scomparsa di Stefano durante la correzione finale delle bozze. Il mio rapporto di amicizia con lui era molto profondo (e non posso certo focalizzarlo, qui, in questa sede) e si era espletato col tempo anche a livello professionale, avendo collaborato assieme per la stesura di più volumi, i più rimarchevoli dei quali proprio per l’editore Odoya. Questa era la nostra quarta guida ai generi cinematografici che facevamo insieme. Un lavoro cui Stefano teneva moltissimo a partecipare, anche se per un solo capitolo (essendo già impegnato nel periodo di stesura su un saggio storico dedicato ai Comanche), e che avrebbe senz’altro fatto da preludio ad altri progetti similari, di cui già parlavamo. È fonte di grande dispiacere, per me, che non abbia fatto in tempo a vedere l’opera finita… sono ancora qui che aspetto la sua solita telefonata serale, nella quale avremmo discusso del lavoro svolto e delle idee per il futuro, tra un pettegolezzo e l’altro. Di certo, questo è anche il suo libro, anzi lo è in modo particolare, perché è a lui dedicato.

RA: Ho conosciuto Stefano lo stesso giorno che conobbi anche Michele, alla presentazione del loro libro “Guida al cinema western”, la prima di una serie di guide che realizzò per Odoya riguardanti il cinema bellico, anche questo sempre con Michele, il noir, il cinema di spionaggio e delle arti marziali, tutti generi che erano nel suo DNA di scrittore di storie avventurose. Non ci si vedeva molto, solo in occasione delle varie manifestazioni del settore editoriale a Milano. Era sempre disponibile e foriero di consigli, se non di aiuti concreti. Dopo il Grande Iato pandemico speravo di rivederlo a una prossima convention. Non mi parrà vero parteciparvi senza sentire raccontare uno dei suoi divertenti aneddoti o parlare dei prossimi progetti, seduti assieme al tavolo di qualche bar.

RC: Non ho avuto la fortuna e il piacere di conoscere Stefano di Marino personalmente. Ci ho parlato soltanto una volta per telefono, per mettere a punto i dettagli della sua partecipazione a un mio volume di prossima uscita sulla storia letteraria e cinematografica del duello, e ne avevo subito apprezzato l’entusiasmo e la generosità. La sua scomparsa mi ha colpito molto e ha lasciato un segno comunque profondo. Fra i suoi tanti volumi, da non appassionato di narrativa spionistica o similare, ricordo con piacere un titolo forse poco noto, uscito negli anni Novanta, “Il buono, il brutto e il cattivo”, che recuperava il titolo del celebre film di Leone per un dizionario dei personaggi del cinema e del fumetto che anticipava di un paio d’anni il mio “Dizionario dei personaggi fantastici” (scritto assieme a Gian Filippo Pizzo).