L’angolo di Michele Anselmi | Scritto per il Secolo XIX
Nella sua ricca e vivace carriera d’attrice, Helen Mirren, inglese doc ma nata Elena Vasilevna Mironova da padre russo zarista, è stata tante donne: Elisabetta I, Elisabetta II, la moglie di re Giorgio III, di Tolstoj e di Hitchcock, Fata Morgana, killer dei servizi segreti britannici strappata alla pensione, spogliarellista stagionata per una buona causa, eccetera. Oggi, a 70 anni, è sempre una bella donna, oltre che interprete duttile e spiritosa. L’Oscar vinto per “The Queen” non le ha dato alla testa. «Da più di 50 anni Elisabetta mantiene intatte la sua dignità, il suo senso del dovere e la sua pettinatura. Ma se sono qui lo devo a lei» ironizzò nel 2007 ritirando la statuetta. Lei che sulla monarchia la pensa come il “rosso” laburista Jeremy Corbyn.
Non è un problema chiederle come vive l’incedere dell’età. «Come tutti. Amo gioventù e bellezza. Ma il dilemma è sempre lo stesso: o muori giovane o impari a invecchiare. A me l’idea di morire giovane non andava, e mi dispiace molto per Kurt Cobain, che s’è perso tante cose belle. Incluso il Gps». Con gli anni, Helen Mirren si è un po’ assottigliata, fisicamente. Da giovane, mentre furoreggiava il modello Twiggy, era considerata “una bambola” per via del seno prorompente e delle curve notevoli. Oggi indossa i suoi 70 anni con oculata civetteria british. «Sono contenta di essere viva: mi chiamano per fare film, passo più tempo che posso in Salento con mio marito (il regista Taylor Hackford, ndr), provo a non diventare cinica, a tenere acceso un certo idealismo». Ha parole gentili per Nicole Kidman, Jennifer Aniston, Cate Blanchett. «Greta Garbo si eclissò a 38 anni. Oggi tante brave attrici danno il meglio di sé dopo i 40. Non è una questione di ruoli al cinema. Semmai è nella vita vera che devono cambiare i ruoli delle donne».
Il 15 ottobre esce “Woman in Gold”, dove lei incarna una combattiva ebrea ottantaduenne, Maria Altmann, scappata dall’Austria nazista nel 1938 per trovare rifugio in California. Donna realmente esistita, figlia di un colto e ricco industriale dello zucchero, nonché nipote di Adele Bloch-Bauer, che il pittore viennese Gustav Klimt, forse suo amante, immortalò nel famoso ritratto “art nouveau” noto come “La dama in oro”. Uno dei più ammirati al mondo, e pure tra i più quotati: nel 2006 fu venduto per 135 milioni di dollari a un gallerista newyorkese, dopo la clamorosa battaglia legale vinta dalla signora con l’aiuto del giovane avvocato americano Randy Schoenberg, ebreo anche lui e nipote del compositore viennese. Storia poco nota in Italia, che il regista britannico Simon Curtis trasforma, un po’ alla maniera di “Philomena” di Stephen Frears, in vicenda universale, di forte suggestione simbolica, tra passato e presente: quel quadro, razziato dai nazisti insieme ad altri dipinti e oggetti preziosi, apparteneva alla famiglia Altmann, quindi a Maria, ma l’Austria fece di tutto dal 1998 al 2006, pur sapendo, per non restituirglielo. Alla fine la spuntò lei.
Mirren è perfetta nel ruolo dell’anziana combattente. Abiti in stile Laura Ashley, messa in piega all’antica, pronuncia inglese con reminiscenze austriache, battuta pronta. Nel metterla a fuoco, ha pescato un po’ nei ricordi di famiglia: «Sono nata nel 1945, ma ai miei da bambina chiedevo che cosa significava vivere sotto i bombardamenti, col cibo razionato, la paura di morire tra le fiamme». Un attimo e prosegue: «Furono anni bui, oscuri. Oggi accade qualcosa di simile con i profughi dalla Siria, e prima con i massacri in Ruanda, la pulizia etnica nell’ex Jugoslavia». C’è una frase, del film, che le piace citare: «La gente dimentica, specialmente i giovani. È proprio così, per questo ho voluto che Maria, in ogni scena, portasse infisso nello sguardo il ricordo di quell’ingiustizia vissuta da ragazza, di quell’abominio di massa escogitato da un austriaco». Hitler, appunto.
Nella vita Mirren non ha voluto avere figli, preferisce, quando non recita su qualche set, curare i 400 alberi di melograno giù a Tiggiano, dai quali intende trarre un succo da commercializzare dappertutto. Dice proprio così: «My life contadina salentina». Pare che, nel ristrutturare il castello diroccato assurto a buen retiro, abbia patito qualche rogna burocratica. Sorride: «Il sistema giudiziario italiano è davvero complicato per uno straniero, diciamo un po’ bizantino». In compenso molto ammira i giudici che combattono la mafia. E anche Checco Zalone.
Michele Anselmi