Indagine nel mistero profondo della paura | Dalla pagina allo schermo

“Il giro di vite”, scritto e pubblicato da Henry James nel 1898, rappresenta uno dei testi chiave per la comprensione della sua poetica. Dietro l’apparenza di una storia di fantasmi dall’impianto “gotico”, il romanziere orchestra una logica di correlazioni tra le quali risulta centrale la messa in scena del desiderio. Lo schema del raddoppiamento e il meccanismo della ri-apparizione fungono da asse strutturale sia sul piano del racconto, sia sul livello della metafora: i "revenants" non sono altro che il vero problema del narratore e simboleggiano chiaramente tutto ciò che ritorna. Diversamente da ciò che rappresenta per altri scrittori del Novecento, come Proust o Svevo, secondo James la ripetizione non è da interpretare né in chiave mistica e né simbolica: se questo meccanismo si presenta, l’uomo deve in qualche modo rassegnarsi a questa “insanabile contraddizione”. Ne “Il giro di vite” questo assume una nota quasi farsesca: perfino la stessa narrazione viene affidata a un “delegato”, Douglas, che trasferisce in qualche modo il pensiero dell’autore rivelandosi un personaggio “traslato” e derivato da un tempo ancora anteriore alla scrittura.

Miles e Flora sono i nomi dei bambini protagonisti della vicenda e Miss Jessel – la loro prima istitutrice – si svelerà essere la loro ossessione, agli occhi di quella attuale, Miss Giddens. Quest’ultima ha accettato di prendersi cura dei bambini per non deludere l’aspettativa dello zio dei due, suo datore di lavoro: è questo il punto di non ritorno della storia, la scelta che cambia il flusso degli eventi generando continue micro-azioni di causa-effetto. Come in “The Secret Fount”, opera di James di tre anni successiva, un filo sottile di “dipendenze” comincia da questo momento a collegare tutti i rapporti tra i personaggi. L’infinita catena di seduzioni e appropriazioni morali rievoca fortemente la tematica del vampirismo e conferisce spessore ad un’allegoria già viva di per sé che si scioglie nel realismo figurativo, all’interno di un’atmosfera di bellezza e sciagura che non può trovare realizzazione migliore della messa in scena “audiovisiva”. Sarà questa la ragione per cui del linguaggio di James esiste un numero così rilevante di adattamenti sul grande e piccolo schermo?

La prima operazione a riguardo è firmata dal regista Jack Clayton: si tratta di “Suspense” (“The Innocents”, 1961), un film che mantiene fedeltà all’opera letteraria per varie ragioni. In primo luogo non fornisce nessun tipo di risposta al mistero e lascia scegliere allo spettatore in cosa credere così come James lascia scegliere al suo lettore; in secondo luogo rimarca quest’ambiguità dei contenuti trasferendola sul piano stilistico e giocando sui suoni in e off (i bisbigli notturni dei bambini sono spesso più spaventosi degli scricchiolii e dei loro comportamenti anomali). Altro peso rilevante è dato dalla componente sessuale, vero cardine del fantasma che anima il bambino. Questo tipo di tensione si mantiene costante fino all’esplosione di un finale che all’epoca fece scalpore, la scena del bacio tra l’istitutrice e il piccolo Miles (immagine che ha ispirato la canzone “The Infant Kiss” di Kate Bush), una scena che agli occhi di uno spettatore di oggi potrebbe apparire come l’anticipazione di una tendenza specifica. Si tratta di un “finale non chiuso” che associa questo film all’idea di precursore del “thriller psicologico”, genere a cui appartiene per esempio “The Others”.

Il secondo film ispirato all’opera di James, “Improvvisamente un uomo nella notte” (“The Nightcomers”, 1972), si presenta invece come un tentativo di illustrarne l’antefatto: il rilievo è posto sulla figura di Quint, un giardiniere con cui la governante dei due giovani fratelli orfani instaura un rapporto morboso: il ruolo è affidato strategicamente all’interpretazione di Marlon Brando. Qualche anno più tardi una rilettura gay del classico di James è firmata dal regista spagnolo Eloy De la Iglesia, “Un altro giro di vite" ("Otra vuelta de tuerca", 1985), mentre il 1994 è l’anno che segna la diffusione di “Presenze” ("The Turn of the Screw"), a sua volta ripreso per il successivo adattamento televisivo del 1999. In questo stesso anno e ancora per merito dell’interesse da parte della Spagna, si torna ad affrontare James attraverso la coproduzione Usa dal titolo “Presence of mind”, un film diretto da Antoni Aloy con Sadie Frost nel ruolo della governante.

La tv è ancora protagonista del genere con il lavoro di ricostruzione eseguito da Benjamin Britten nel 2004, ma senza dubbio l’adattamento che più di recente ha saputo riattualizzare il tema dei fantasmi senza alterarne il nucleo centrale appartiene all’ambito della produzione su grande schermo. Il riferimento è all’opera “In a Dark Place” (2006) di Donato Rotunno: nel film l’insegnante prende il nome di Anna Veight e il volto dell’attrice Leele Sobieski, alla quale la critica ha attribuito la capacità di aver “rinnovato un soggetto usurato” a causa dell’espressione ingenua e al contempo tormentata. Disagio e curiosità, in effetti, non erano altro che gli elementi primari di una tensione di fondo già presente nel corrispondente personaggio letterario. Sono tutti simulacri del passato che pretendono un presente? Liberamente ispirato a questi predecessori, arriva oggi “1921 – Il mistero di Rookford", un film di Nick Murphy che, nonostante sradichi la protagonista dal ruolo di insegnante per trapiantarla in quello di una scrittrice impegnata a smascherare storie sul sovrannaturale, mantiene il cuore pulsante dell’opera originaria: l’horror non è che un pretesto per indagare l’essenza della paura, territorio che supera il confine di qualsiasi contesto storico.

Ilaria Abate