L’angolo di Michele Anselmi
“Solo al cinema dal 16 giugno” si legge sulla locandina di “Hill of Vision”, e immagino che la sottolineatura significhi qualcosa per Roberto Faenza, regista torinese, classe 1943, il cui ultimo film, “La verità sta in cielo” sul caso Orlandi, risale al 2016. In realtà “l’incredibile storia di Mario Capecchi”, come recita il sottotitolo, era da quasi tre lustri nella testa del cineasta/prof; ma non dev’essere stato facile mettere insieme i soldi – producono la “Jean Vigo” e Rai Cinema, distribuisce Altre Storie – per realizzare questo film un po’ eccentrico rispetto agli standard attuali del cinema italiano.
Mario Capecchi, genetista e premio Nobel per la medicina nel 2007, ha avuto davvero un’infanzia straordinaria, non proprio nel senso positivo del termine; tuttavia quanto vissuto da lui nell’Italia nei primi anni Quaranta e poi negli Stati Uniti, subito dopo la guerra, ha davvero forgiato il carattere di questo uomo tenace e ribelle, impegnato a dominare l’ansia, anche la propria, mettendo il tutto al servizio della scienza.
D’altro canto la psicologia infantile proiettata in situazioni estreme, tragicamente avverse, è un tema ricorrente nel cinema di Faenza, penso a “Jona che visse nella balena” (un campo di concentramento nazista) o a “I Viceré” (un padre despota e castrante); a suo modo anche Capecchi rientra nella famiglia di questi “sopravvissuti” capaci di trasformare la disgrazia in redenzione.
Si parte nel 1948, dalle parti di Bryn Gweled, Pennsylvania, all’interno di una piccola e solidale comunità quacchera. L’undicenne Mario Capecchi, nato a Verona, sembra finalmente tranquillo sotto quel porticato lambito dal sole, insieme alla madre Lucy Ramberg e agli zii amorosi. Ma forse non è così. E intanto parte il lungo flashback che riporta la vicenda al 1941, all’inizio del conflitto mondiale, su un altopiano vicino a Bolzano. Per il piccolo Mario cominciano lì i guai.
Temendo di essere arrestata, la mamma, americana e democratica, già moglie di un becero aviatore fascista col fez, affida il piccoletto a una famiglia di contadini; ma la delazione è nell’aria, sicché Mario preferisce scappare per unirsi a una banda di ragazzini orfani e abbandonati, dediti a rubacchiare per sfamarsi e a dormire dove capita. I suoi amici più cari sono una dodicenne tosta che si fa chiamare “Frank” e un ragazzino, detto “Fratello”, che non parla mai. Ed è solo l’avvio di un’avventura, tra fame, freddo, bombe, espedienti e possibili molestie sessuali, che porterà i tre in un orfanotrofio gestito da un prete misericordioso…
Accadono tante cose nel corso dei 100 minuti di film e non è il caso di raccontarle qui. Sappiate solo che, dopo la Liberazione, un po’ miracolosamente il piccolo Mario nel giorno del suo compleanno ritroverà la mamma Lucy, scampata all’inferno di Dachau ma segnata fisicamente e psicologicamente dall’atroce esperienza, e insieme partiranno alla volta di Bryn Gweled, che significa appunto “Hill of Vision”, metaforicamente la “collina della visione”: e lì sorgeranno problemi di integrazione, nonostante la premurosa accoglienza degli zii Edward e Sarah…
Essendo un cine-romanzo di formazione, il film intreccia disavventure e ricordi, gesta da “monellacci” e momenti di disperazione, il tutto per mettere a fuoco il carattere di Mario, considerato “un adolescente refrattario a ogni forma di disciplina”, come teorizza il preside della scuola americana incapace di far i conti con le brutture affrontate dal ragazzo in Italia per non soccombere.
Sul piano registico, Faenza sceglie una formula abbastanza classica d’impaginazione, funzionale forse al successivo sfruttamento sulle piattaforme o sulle reti Rai, senza complicare troppo l’andirivieni temporale, in modo da permettere allo spettatore di seguire con facilità la progressione degli eventi. Certo sarebbe stato meglio, molto meglio, non doppiare tutto in italiano, perché così si perde del tutto il senso di spaesamento linguistico vissuto dal ragazzino una volta negli Usa, anche la differenza delle culture, degli ambienti e delle sensibilità. Cast quasi tutto anglofono, con i ruoli principali coperti da Jake Donald-Crookes e Lorenzo Ciamei (Mario adolescente e bambino), Laura Haddock (la mamma), Edward Holcroft ed Elisa Lasowski (gli zii quaccheri), mentre Francesco Montanari fa il mussoliniano e dimenticabile padre.
A tratti viene un po’ da pensare, per l’atmosfera torva e il racconto itinerante, a un film francese del 2017, “Un sacchetto di biglie” di Christian Duguay, ma vai a sapere se Faenza l’ha visto; smaltata la confezione, arricchita dai costumi di Milena Canonero, dalla fotografia di Giuseppe Pignoni e dalle musiche di Andrea Guerra.
Michele Anselmi