L’angolo di Michele Anselmi 

Ora, non per fare il professorino, ma il nuovo film di Ron Howard si chiama in originale “Hillbilly Elegy” (lo trovate su Netflix). Ha senso: “hillbilly” è un termine perlopiù dispregiativo, usato per indicare chi abita nelle aree rurali e montuose a ridosso degli Appalachi, persone di solito considerate arretrate e violente, dei bifolchi insomma. Il titolo italiano del film, pure del libro da cui è tratto, recita invece più morbidamente “Elegia americana”, e davvero è una sciocchezza, perché altera il concetto antropologico originario (magari si voleva alludere a un celebre romanzo di Philip Roth, “Pastorale americana”).
Benché in patria sia stato stroncato dai critici, con frasi del tipo “ridicolmente orribile” e “uno dei più vergognosi dell’anno”, io trovo invece che il nuovo film di Ron Howard, regista eclettico e sempre interessante, sia da vedere. Certo non è una passeggiata, il tono è drammatico, survoltato, c’è una sgradevolezza di fondo per permea ambienti e situazioni, e del resto si parla di quel pezzo di società bianca, spesso impoverita e devastata, che gli americani chiamano non a caso “white trash”.
Alla base c’è la toccante autobiografia di James David Vance, detto J.D., classe 1984, nato a Middletown nell’Ohio ma con radici nel Kentucky montanaro. Vance oggi è uno scrittore affermato, anche un uomo risolto e felice; ma non è stato facile “evadere” da quella deprimente condizione umana e sociale.
Il film, sceneggiato da Vanessa Taylor, si muove tra il 1997 e il 2011, in un andirivieni temporale che mostra due momenti cruciali nella vita di J.D.: prima ragazzino cicciottello e sfigato, poi studente a Yale in attesa di un ingaggio cruciale. I piani si intrecciano, naturalmente, così scopriamo le prove drammatiche che ha dovuto superare il brillante “hillbilly” per trovare una strada senza tradire le proprie origini ruspanti.
Ecco Bev, una madre sciroccata e dipendente dall’eroina, sempre a un passo dal tracollo nervoso e fisico; ecco la sorella Lindsay, madre di tre figli e commessa in un negozio di scarpe; ecco la nonna Mamew, solida e zoppa, l’unica che davvero si sia presa cura del ragazzino altrimenti destinato a brutti giri. J.D. ha una fidanzata indiana, Usha, colta e sensibile, ma non le ha mai parlato, per vergogna, di quella famiglia “disfunzionale”; ora, mentre tutto precipita e Bev dà di nuovo i numeri dopo un’overdose, è finalmente giusto il momento di dire la verità.
“Hillbilly Elegy” lavora su atmosfere da “tragedia americana”, pescando in un repertorio classico di disagio, frustrazione, scenate, povertà, divorzi, malattie, corpi sfatti, casupole a pezzi. Lì per lì, confesso, avevo evitato di vederlo, mi sembrava eccessivo il trucco che imbruttisce e ingrassa, fino quasi a renderle irriconoscibili, Amy Adams, Glenn Close e Haley Bennett, nei ruoli della mamma, della nonna e della sorella. Invece Bev, Mamew e Lindsay erano proprio così, come mostrano i titoli di coda, e anche Gabriel Basso e Asztalos sono precisi nell’incarnare J.D. da grande e da ragazzino.
L’elegia dal titolo evocata va presa con le molle, anche se c’è qualcosa di profondamente elegiaco in questo mix di confessioni private e sfoghi sentimentali. A me non sembra un brutto film, magari suona un po’ già visto, e certo consiglio la versione originale coi sottotitoli per cogliere i diversi accenti (quello “burino” e quello “di società”). Non male la definizione della società americana scolpita dalla rocciosa nonna, gran estimatrice di Arnold Schwarzenegger. “Ci sono tre categorie: i buoni Terminator, i cattivi Terminator, né l’uno né l’altro”.
PS. Ogni tanto si parla nel film della faida Hatfield-McCoy. Per chi non sapesse, fu una sanguinosa guerra tra famiglie che andò avanti per decenni nel secondo Ottocento dopo la Guerra civile. In proposito c’è una bella serie tv del 2013, con Kevin Costner e Bill Paxton.

Michele Anselmi