“Horror Fever – Il cinema eccessivo di Eli Roth” di Federico tadolini, in libreria per Shatter edizioni, analizza la carriera di un regista che con un pugno di titoli è riuscito a ritagliarsi una nicchia di tutto rispetto all’interno del cinema dell’orrore contemporaneo. Ne abbiamo parlato con l’autore.
Quali sono le caratteristiche generali del lavoro di Eli Roth? Credi che sia lecito parlare di una poetica di Roth?
Federico Tadolini: Sinceramente non parlerei di una poetica di Eli Roth, almeno nel senso più stretto del termine. Parliamoci chiaro, Roth non ha una tecnica di regia che ti rimane nel cuore e negli occhi, non riesce a caratterizzare i personaggi dei suoi film in maniera da lasciarteli impressi. Però è riuscito a ritagliarsi una nicchia di suoi fan. In che maniera? Semplicemente facendo divertire il pubblico, e mi ricollego ad un esempio classico: quando esistevano i drive-in, sapevi già che ti saresti divertito e così succede con Eli Roth, sai che in un suo film ti divertirai. Le caratteristiche generali sono appunto “il non prendersi mai troppo sul serio”, la violenza, l’ironia.
Nel volume che pubblichi per Shatter, oltre all’analisi delle regie di Roth, proponi disamine e approfondimenti sui sequel dei suoi film firmati da altri o sulle produzioni a lui connesse. In che modo questo approccio, che include giustamente anche aspetti del fare cinema diversi dall’attività registica, vuole rompere una paludata tendenza critica?
F.T: Quello che vorrei che trapelasse da questo libro è l’assoluta poliedricità di Eli Roth, non molto prolifico come regista, ma assolutamente sempre in funzione come produttore, attore, sceneggiatore. Una figura “vecchio stampo”, come si usava fare un tempo nelle vecchie case di produzione, o per citare qualche nome, come facevano William Castle o Roger Corman. Ricordiamoci che Roth si è formato inizialmente presso la Troma di Lloyd Kaufman, una sorta di factory schizoide dove tutti si ritrovavano a fare aiuto regista, comparsa, runner ecc.. Factory che oltre ad Eli Roth è riuscita a formare pure James Gunn.
Nel libro, dedichi un’ampia sezione al sodalizio con Quentin Tarantino, andando a trovare connessioni che non appaiono subito immediate, penso alla scheda dedicata a “Le iene”. Possiamo parlare di questo?
F.T: Certamente. Dunque, Tarantino lo possiamo considerare una sorta di padre cinematografico di Eli Roth. Inizialmente gli ha proprio dato la vita, ovvero il tributo amatoriale intitolato “The Restaurant Dogs”, disponibile anche su YouTube, e con cui Roth si diplomò alla scuola di cinema. Il lavoro che comunque risulta molto grezzo, ingenuo e totalmente low budget, rappresenta un vero e proprio atto d’amore verso “Reservoir Dogs” di Quentin Tarantino. E, dopo aver esordito con quello che secondo me è il suo film migliore, ovvero “Cabin Fever”, venne notato proprio dallo stesso Tarantino che gli produsse “Hostel”. Nel capitolo ho voluto descrivere un’analogia tra la famosa scena di tortura nel film “Reservoir Dogs”, con quella probabilmente più efficace di “Hostel”. La macchina da presa si concentra sul rapporto tra vittima e carnefice, sui suoni rappresentati dai pianti e dalle suppliche della vittima, dallo stato di superiorità e di onnipotenza del torturatore, dalla sua follia, per poi virare sulle scene shock, riuscendo a cogliere tutti i dettagli possibili.
L’attenzione di Eli Roth per il cinema italiano, la venerazione per registi del nostro Bis, e la volontà di girare dei (quasi) remake di film di culto come “Emanuelle in America”, che si vede in filigrana a “Hostel”, o del filone cannibalico resuscitato in “The Green Inferno” la dicono lunga su una certo modo di fare cinema dell’era post-Tarantino. Cosa ne pensi
F.T: Considero Tarantino come un’entità a parte e lo metto sullo stesso livello di autori che hanno fatto la storia del cinema come Fellini e Bergman. Mi spiego meglio: Tarantino con “Pulp Fiction” ha radicalmente cambiato il cinema sotto l’aspetto tecnico, ma soprattutto sotto l’aspetto narrativo. Leggendo la sceneggiatura, ci sono circa due o tre pagine di dialogo sulla la differenza tra un cheeseburger di McDonald’s e uno di Burger King. Una cosa che in realtà non penso possa interessare a nessuno, eppure lui utilizza parole che riescono a farti interessare a questo dialogo assurdo. Ovviamente è stato copiato (male) da parecchi e la differenza di risultati si può vedere chiaramente. Inizialmente la passione maniacale di Tarantino per il cinema di genere era vista come una presa in giro verso lo spettatore, ma con il tempo ha dimostrato la genuinità della cosa, e la totale conoscenza verso quel cinema spesso bistrattato dai critici snob, che magari poi lo hanno pure rivalutato. Pensiamo ad autori come Lucio Fulci, Aristide Massaccesi, ma anche allo stesso Dario Argento, registi studiati nelle scuole di cinema all’estero, ma troppo spesso ignorati da noi. Riallacciandomi alla tua domanda, anche Eli Roth è un regista “onnivoro”, ovvero che conosce la storia del cinema dalla A alla Z. Al momento non ho avuto il piacere di conoscerlo di persona, ma ho interagito con lui tramite web. Anni fa, scrivevo per un blog di cinema, e mi venne affidata la recensione del film “Porno Holocaust” di Joe D’Amato. Eli Roth, mise il like alla recensione . Ma a parte questo episodio, è sufficiente guardare qualche intervista su YouTube, dove cita film come “W la foca” di Nando Cicero e parla di caratteristi del nostro cinema come Bombolo.
A volte è stato proprio frainteso, come per “The Green inferno”, nel senso che c’è ancora qualcuno che parla di una rivisitazione di “Cannibal Holocaust” di Ruggero Deodato, probabilmente si tratta degli spettatori che sono usciti dalla sala delusi dal film di Roth.
Anche “Eli Roth’s History of Horror”, in questo, rappresenta un’operazione interessantissima dove lo spettacolo va di pari passo con l’approfondimento e il regista diventa quasi un critico, un addetto ai lavori che organizza, studia, passa in rassegna la storia del cinema… Trovi che sia una lettura giusta?
F.T: Direi di sì, in questo caso Eli Roth torna anche ad essere innanzitutto un fan del cinema horror, e vuole ripercorrere tutta la storia dell’horror, analizzando i grandi registi che ne hanno fatto la storia, i sottogeneri, ma anche quegli artisti come Jordan Peele che sono riusciti a trasportare il cinema di genere direttamente alla notte degli Oscar come nel caso di “Scappa – Get out”, piccola produzione della Blumhouse che riuscì ad essere nominata come Miglior film e anche a vincere come Miglior sceneggiatura originale.