L’angolo di Michele Anselmi
Era scontato che “I due Papi” avrebbe fatto arrabbiare chi si occupa di cose vaticane. Ad esempio Marco Tosatti ha intinto la penna nel sarcasmo scrivendo su “Stilum Curiae” quanto segue: “Abbiamo un capovolgimento totale della realtà. Di sicuro se c’è qualcuno che non ha voluto diventare Papa (stava organizzando, finalmente, la sua pensione, nel rifugio dei Castelli…) è proprio Joseph Ratzinger. Quanto a Jorge Mario Bergoglio, a sentire che l’ha conosciuto e lo conosce, se c’è qualcuno che ha cercato tutta la vita il potere questi è proprio lui”.
Solo che a Tosatti e ai vaticanisti di vario orientamento sfugge una cosa: che la sceneggiatura del film diretto dal brasiliano Fernando Meirelles, quello di “City of God”, viene da una pièce teatrale di Anthony McCarten, da lui stesso adattata per lo schermo. Il drammaturgo americano non pretende di raccontare come sono andate davvero le cose tra papa Benedetto XVI e il futuro papa Francesco, semmai elabora una fantasia, benché legata a fatti in parte documentati (viene citato anche l’esplosivo libro di Gianluigi Nuzzi), che gioca su un altro piano, divertito e allegorico, di taglio teatrale, immaginando un lungo incontro privato, quasi un match a sfondo non solo spirituale o teologico, tra i due grandi uomini di Chiesa.
Insomma, vedere “I due Papi” solo come un racconto agiografico, s’intende dalla parte di Bergoglio, significa, secondo me, non aver capito affatto lo spirito del film, che poi, certo, può piacere o no.
Al sottoscritto, per dire, è piaciuto più delle due puntate viste a Venezia di “The New Pope” di Paolo Sorrentino, e lo dico sapendo bene che apparirà una bestialità alle orecchie dei fan in spasmodica attesa (parte il 10 gennaio su Sky) della seconda serie, non a caso incentrata sullo scontro tra due pontefici, gli immaginari Pio XIII e Giovanni Paolo III, cioè Jude Law e John Malkovich. Nel film di Meirelles sono invece Anthony Hopkins e Jonathan Pryce a sfidarsi in una “due giorni” che si svolge tra la residenza di Castel Gandolfo e la Cappella Sistina.
Siamo nel 2012: Bergoglio vola a Roma da Ratzinger perché dimettersi da cardinale e arcivescovo di Buenos Aires; ma il pontefice tedesco nega la sua firma al porporato argentino considerato ribelle e avversario, e strada facendo capiremo il motivo.
“Le coincidenze non esistono, siamo tutti nelle mani di Dio” sentiamo dire, e a quel punto, mentre i due imparano a conoscersi dopo essersi vivacemente combattuti/confrontati sulla crisi e il futuro della Chiesa, appare evidente quanto ha in testa di fare, e farà l’anno successivo, nel 2013, il cosiddetto “rottweiler di Dio”.
Naturalmente i due attori gigioneggiano un po’, assecondando il disegno del regista, estremizzando i caratteri dei due personaggi ai fini dello spettacolo. Ratzinger è conservatore, tutto studio e niente vita, infiacchito dagli acciacchi, lambito da scandali, dedito a cenare da solo guardando “Il commissario Rex”, affezionato alle pontificie scarpe rosse; Bergoglio è progressista, un gesuita in buona salute che canticchia “Dancing Queen” degli Abba, adora il calcio, mangia la pizza preferibilmente in compagnia, indossa scarpe normali. Stereotipi? In parte sì, forse con qualche caduta nella macchietta, ma servono a Meirelles per arrivare al cuore del discorso: entrambi i religiosi custodiscono segreti e peccati (Ratzinger fu troppo clemente sul tema della pedofilia, Bergoglio fu troppo cedevole nei confronti della dittatura militare), solo l’uno può assolvere l’altro e viceversa, rendendo una sorta di piena confessione.
Dario Penne e Gino la Monica doppiano come al solito bene Hopkins e Pryce, ma il film è corretto nel lasciare brani di dialogo in latino e spagnolo, anche interessante nello svelare alcuni rituali che rendono ogni volta così solenne e potente lo svolgimento del conclave per la scelta di un nuovo “Vicario di Cristo”.
Dove vederlo? Dal 20 dicembre è sulla piattaforma Netflix dopo rapido passaggio di tre giorni nelle sale italiane.
Michele Anselmi