L’angolo di Michele Anselmi 

Consiglierei di non vedere “I figli del fiume giallo” come un film di gangster, anche se il titolo cinese suona “Figli e figlie del Jianghu”, dove per Jianghu, alla lettera “fiumi e laghi”, bisogna intendere un certo codice d’onore, misto a senso di fratellanza, legato al sottobosco criminale delle Triadi cinesi. Nonostante l’apparizione di una pistola che non ucciderà nessuno pur provocando tanti guai, il film di Jia Zhang-ke è di quelli che usano il “genere” per parlare d’altro: del tempo che passa, dell’amore che svanisce, dell’irresolutezza umana, delle strettoie del destino, anche della Cina che cambia vorticosamente restando in buona misura uguale a sé stessa.
Passato in concorso a Cannes 2018 e da giovedì 9 maggio nelle sale italiane con Cinema di Valerio De Paolis, “I figli del fiume giallo” custodisce una miniera di riferimenti cinefili e rimandi autobiografici, pure geografici, per chi li sappia cogliere, ma uno spettatore normale potrà egualmente lasciarsi andare al senso ellittico e struggente della narrazione, secondo i tempi lunghi, anche distesi, cari al regista di “Still Life”.
Si parte nel 2001 a Datong, nello zona dello Shanxi, dove la volitiva Qiao e il carismatico boss Bin gestiscono una bisca. “La coppia del film vive ai margini della società, sopravvive sfidando l’ordine sociale convenzionale” spiega il regista. In effetti è così. I loro piccoli traffici criminali sono nulla in confronto al disastro sociale che si sta profilando: miniere che chiudono, operai licenziati o delocalizzati a forza, povertà estesa, la fine del “collante” maoista.
Una resa dei conti tra bande rivali spinge Qiao, che non si sente “figlia del Jianghu”, a estrarre la pistola del compagno Bin per salvarlo da un pestaggio mortale a colpi di badilate; e quel gesto la porterà in carcere per cinque lunghi anni.
Nel 2006, uscendo di prigione, Qiao prova a rintracciare l’amato boss per il quale si sacrificò, ma l’uomo sembra averla dimenticata: un altro lavoro, un’altra fidanzata. Seguono viaggi, disavventure, illusioni, torti subiti e torti inferti, un’illusoria parentesi sentimentale con uno sconosciuto sul treno verso sud.
Il terzo atto ci riporta a Daton, nel 2018: Qiao, grintosa come un tempo, sembra essersi ripresa la sua vita, è di nuovo in sella, con il malridotto Bin al suo fianco, seppure su una sedia a rotelle per via di un ictus. Ma quanto può durare quella parvenza di rapporto?
Diciassette anni di vita, tre capitoli con stili e formati diversi, ma soprattutto lei, l’eroina interpretata da Zhao Tao, musa e compagna del regista: con frangetta e abiti vistosi o coi capelli raccolti a coda di cavallo e camicetta gialla, Qiao incarna la romantica determinazione di una donna che non vuole rinunciare all’uomo che ama, contro tutto e tutti, e anche quando proverà a vendicarsi lo farà con amore. Nel suo viso si rispecchia il destino di una Cina in bilico tra frenetica rivoluzione digitale e permanenza di antiche tradizioni, lo scorrere lento e implacabile di quel fiume giallo evocato dal titolo italiano, pure mostrato nel film. Quanto agli uomini, non ne escono bene, specie il Bin incarnato da Liao Fan: troppo preso da sé, dal ruolo di “capetto” scavalcato dal tempo e dagli eventi, per riuscire ad accettare la tregua.
Valentina Mari e Francesco Prando doppiano correttamente i due personaggi, imprimendo un certo tono hollywoodiano alla vicenda; ma certo la versione in cinese, ovviamente sottotitolata, custodisce tutto un altro profumo di verità vocale e sonora.

Michele Anselmi