“Ho il trono nell’ azzurro, sfinge oscura, ho il cuore di neve, del cigno il biancore, odio il gesto che le linee scompone, al riso e al pianto estranea è mia natura.”
“La beauté” di Charles Baudelaire è la stessa poesia con la quale Claver Salizzato conclude il suo lungometraggio “I fiori del male”, omonimo della celebre raccolta del poeta, disponibile dal 4 febbraio 2021 su Prime Video.
Il poeta scriveva i suoi versi con la prima persona singolare, mentre il regista decide di farli decantare in terza persona singolare rivolgendosi alle tre donne protagoniste della narrazione: Veronica, cortigiana e poetessa della Serenissima Repubblica di Venezia; Margherita, cocotte della Parigi agli albori della Belle Époque; Mata Hari, famosa ballerina e agente segreto agli inizi del ‘900.
Tre donne, tre epoche diverse legate da un destino e da una visione dell’amore pressocché simile. Le loro storie vengono narrate in maniera sequenziale, con un passaggio alla volta che sorprende e accompagna lo spettatore, ciascuna donna infatti è in un modo o nell’altro partecipe silente della vita dell’altra. Il lungometraggio firmato Salizzato può essere definito come un omaggio alle arti del cinema, della poesia, dell’amore e dell’erotismo: nei ’70 minuti, infatti, l’occhio di chi osserva si posa su primi e primissimi piani, luci a piombo sul volto delle donne che ne evidenziano il ruolo dominante, citazionismi continui al cinema che parla e osserva sé stesso, suoni extradiegetici udibili solo allo spettatore per colmare l’assenza di dialogo in determinate sequenze e il ritorno di un elemento scomparso, il narratore. Tale figura è la prima con cui si entra in contatto, è quella che ancor prima delle dame si rivolge allo spettatore per condurlo in un labirinto intricato in cui l’amore è vittima e carnefice, è negato e desiderato dagli occhi delle dame. Queste ultime, infatti, vivono la loro condizione di amanti come un valido motivo per sfuggire all’amore, come fosse un fiore del male, quello entro il quale loro stesse si identificano: “Cosa sono io? Solo un fiore del male”.
Veronica, Margherita e Mata combattono una battaglia tra l’amore sacro e l’amore profano, tra il romanticismo e gli interessi più materiali, quella stessa lotta che le porta ad essere talmente sature di frustrazione e dolore da rendersi apparentemente vuote e prive di anima, bambole di porcellana davanti ad uno specchio giudicante. “Se gli uomini sapessero che cosa si può ottenere con una lacrima sarebbero più amati e noi saremmo meno rovinose” afferma Margherita, la stessa che il maestro Gigi Proietti aveva rivisitato in chiave comica ne “La signora delle Camelie”, mentre esterna il suo amore per il conte Duval per poi negarlo e renderlo effimero nella sequenza successiva.
Una lotta impari, dunque, quella tra l’io interiore e l’apparenza esteriore di cui “I Fiori del male” narra le ombre tramite gli occhi di tre donne distanti nelle loro epoche ma vicine negli ideali, tre donne che custodiscono gelosamente un’indipendenza guadagnata con i propri artifici, ma che nonostante tutto non le ha salvate dal pericoloso gioco dell’eros.
Cristina Quattrociocchi