L’angolo di Michele Anselmi | Scritto per Cinemonitor
Fidatevi: c’è un solo grande film da andare a vedere subito (esce il 10 marzo). Si chiama “Ave, Cesare!”, l’hanno diretto i fratelli Coen. Negli Stati Uniti non è piaciuto granché, purtroppo, ha incassato appena 30 milioni di dollari, a fronte dei 22 serviti per farlo. Non diremo che è troppo sofisticato per il pubblico americano, sarebbe una sciocchezza. Tuttavia, a parere di chi scrive, è una commedia straordinaria, ambientata nel mondo del cinema anni Cinquanta: si sfoglia come una cipolla, e ogni strato rivela una qualità preziosa, in un intreccio di suggestioni, dove si mischiano ritratto storico e nostalgia di una certa Hollywood che fu, atteggiamenti da star e umane meschinità, paranoia atomica e “caccia alle streghe”, moralismo e cinismo, echi religiosi e affondi blasfemi, farsa e tragedia.
Il film racconta un giorno, o poco più, nella vita di Eddie Mannix, un abile “fixer”, insomma un aggiusta-tutto, degli immaginari Capitol Studios (l’uomo è esistito davvero, diventò addirittura vicepresidente della Mgm, e pare fosse molto meno comprensivo). Estate 1955: Mannix, con piglio pragmatico e misericordioso, oltre che con una pazienza di Giobbe, risolve le più incredibili grane sui set e fuori, trovando anche il modo di confessarsi due volte al prete solo perché tentato dalle sigarette (non vuol dirlo alla moglie amata). Un divo vanesio specializzato in parti da centurione romano è stato rapito ancora con gli abiti di scena, una disinvolta star di musical acquatici è incinta e bisogna trovare una soluzione matrimoniale, due giornaliste pettegole, sorelle e rivali, cercano lo scoop a sfondo sessuale in stile “Hollywood Babilonia”, una specie di Gene Kelly gay che sta girando un film vestito da marinaio medita una risposta clamorosa al maccartismo imperante, un ex vaccaro protagonista di western acrobatici è chiamato a recitare in una commedia romantica diretta da un impomatato regista inglese che gli chiede di esprimere, recitando, «un mesto sogghignare». Tutto si complica dall’alba al tramonto, mentre un sottomarino sovietico emerge dalle acque vicino a Malibù, dove un gruppo di sceneggiatori comunisti un po’ alla Dalton Trumbo si abbevera alle teorie anticapitalistiche di Marcuse.
Non è solo una questione di “touch”. Rispetto ai pure riusciti “Intrigo a Hollywood” (1988) di Blake Edwards e “Hollywoodland” (2006) di Allen Coulter, “Ave, Cesare!” è film più complesso, costruito quasi a scatole cinesi, irto di spunti, osservazioni e strizzate d’occhio: la rievocazione puntuale di un certo cinema hollywoodiano d’antan, diviso per generi, retto da logiche ferree e trapunto di manie divistiche, alterna la notazione buffa, se non addirittura comica, a un palpito più profondo, nostalgico solo in apparenza. Il gioco delle citazioni è infinito, pure gustoso per il cinefilo accanito: da “La tunica” a “Il cavaliere della valle solitaria”, da Laurence Olivier a Esther Williams, da Louella Parsons a Hedda Hopper, e infiniti altre (incluso, forse, “Barton Fink” degli stessi Coen). Ma non si chiede allo spettatore di riconoscere tutto per apprezzare il mosaico. Semmai, dai colori pastello e dalle facce perfette, emerge lo spirito del tempo, e tutti gli interpreti, alcuni in chiave di “cameo”, risultano intonati al clima effervescente: il produttore paziente Josh Brolin che nasconde sotto il tappeto la melma di quel mondo dorato, il centurione tonto George Clooney che pure sfodera alla fine un monologo toccante sul finto Calvario, la ballerina sboccata Scarlett Johansson, il cowboy patriottico Alden Ehrenreich, e poi la doppia Tilda Swinton, Channing Tantum, Ralph Fiennes, Francis McDormand, perfino Christopher Lambert, irriconoscibile nel trucco, sembra bravo.
Ci sono almeno quattro sequenze da antologia. Ma forse lo sguardo dei Coen trova la cifra perfetta nel confronto con i quattro rappresentanti religiosi, cioè il cattolico, il protestante, il rabbino e l’ortodosso, utile a evitare rogne al kolossal su Gesù che si sta girando. Del resto, introdotto da un crocefisso ligneo (altro che il Tarantino di “The Hateful Eight”), il film finisce con l’interrogarsi sulla presenza di Dio, sollevando un velo di mistico mistero sulle infinite vie del Signore, anche tra le scenografie di cartone di quel cinema commerciale in bilico tra grande mistificazione e sublime mitologia.
Michele Anslemi