L’angolo di Michele Anselmi 

La coincidenza forse l’ha sfavorito, ma non bisogna pensare che “I fratelli De Filippo”, il film di Sergio Rubini nei cinema solo per tre giorni il 13, 14 e 15 dicembre come “evento speciale”, sia un clone di “Qui rido io” di Mario Martone. Non è così. Il regista e attore pugliese ha lavorato per sette anni al progetto, insieme agli sceneggiatori Carla Cavalluzzi e Angelo Pasquini, e l’annunciò con largo anticipo. Ma il cinema ha i suoi tempi balordi, la pandemia ci si è messa di mezzo, sicché il film, all’inizio pensato come una miniserie, arriva solo adesso al pubblico dopo l’anteprima alla Festa di Roma, in vista di uno sfruttamento ravvicinato sul piccolo schermo.
A onor del vero solo in parte Rubini rievoca la stessa storia, cioè il tribolato rapporto tra il “divo” Eduardo Scarpetta e tre dei suoi numerosi figli, appunto Titina, Eduardo e Peppino De Filippo, avuti fuori dal matrimonio e mai riconosciuti (per anni i tre bambini furono costretti a chiamarlo “zio”). Il nuovo film, costruito su una narrazione ampia, ben 142 minuti, guarda al dopo, infatti si spinge una ventina di anni più avanti: tra il 1925 e il 1931. Due date non casuali: nel 1925 morì Scarpetta, lasciando poco o niente ai tre figli e alla loro madre Luisa; nel 1931 i De Filippo esordirono al Teatro Kursaal di Napoli con la prima vera tragicommedia scritta da Eduardo, “Natale in casa Cupiello”.
La vicenda comincia da lì: è appena finito il film americano “Nessun uomo le appartiene” con Clark Gable e Carole Lombard, che però è del 1932, e in teatro il pubblico si accinge a vedere quel nuovo spettacolo di ambientazione natalizia. Il sipario si apre e parte il lungo flashback che ricapitola l’infanzia dei tre fratelli (uno dei quali, l’indocile Peppino, cresciuto in una casa di contadini), l’ego gigantesco del loro padre Scarpetta, i non facili rapporti con i fratellastri ricchi e viziati, i primi passi nel teatro popolare.
Ma il nucleo drammaturgico del film sta altrove. Nella parte, per fortuna prevalente, che mostra i tre De Filippo variamente ventenni alle prese con la ricerca di una fisionomia artistica, singola e collettiva insieme, di una riscossa familiare all’insegna del talento. Mentre va in crisi il teatro comico-farsesco del vecchio Scarpetta e di suo figlio Vincenzo, Eduardo, colpito dal pirandelliano “Sei personaggi in cerca d’autore”, sale fino a Milano per confrontarsi con testi in lingua italiana; mentre Peppino lo sostituisce nella compagnia di Scarpetta e la più grandicella Titina prova a muoversi, benché poco attraente, nel mondo del varietà come cantante. I tre sembrano destinati a restare separati, anche per questioni di carattere, finché un umiliante pranzo a casa Scarpetta non li spingerà a un atto di ribellione.
“Se li lasciamo fare, noi De Filippo resteremo sempre quelli che non possono prendere l’ascensore” protestano uscendo da quel sontuoso palazzo; non immaginano che di lì a poco il caso, grazie a Totò, li spingerà a portare in scena un comico atto unico scritto da Eduardo, “Sik-Sik, l’artefice magico”. È il 1929: mancano due anni a “Natale in casa Cupiello”; e il film, intrecciando amori, scenate, tournée sfortunate e matrimoni inattesi, lentamente ci riporta alla sequenza iniziale…
Benissimo ha fatto Rubini a puntare, per i De Filippo, su tre giovani attori campani non usurati dal successo; Mario Autore, Domenico Pinelli e Anna Ferraioli Ravel conferiscono rispettivamente a Eduardo, Peppino e Titina i giusti toni di voce, e sguardi, gesti, atteggiamenti. Il trucco certo aiuta, ma la loro prova è fluida, convincente, non è un “fare il verso a…”. Attorno ad essi un nutrito gruppo di interpreti scelti con cura: da Antonio Milo a Biagio Izzo, da Susy Del Giudice a Marianna Fontana, da Nicola Di Pinto a Marisa Laurito, da Vincenzo Salemme a Maurizio Casagrande. A mio parere il meno convincente è proprio Giancarlo Giannini, chiamato a incarnare il tirannico e senile Scarpetta, peraltro dovendo imitare un dialetto che non gli appartiene, come si faceva una volta, e certo qui incide il ricordo di Toni Servillo.
La Pepito di Agostino Saccà, che coproduce con Rai Cinema, non ha badato a spese sul fronte della confezione: costumi di Maurizio Millenotti, fotografia di Fabio Cianchetti, scenografie di Paola Comencini, musiche di Nicola Piovani (purtroppo inclementi e spalmate su ogni inquadratura, non si capisce bene perché). Non è esclusa una seconda parte: per raccontare gli anni tra il 1931 e il 1944, quando la compagnia dei De Filippo si sciolse definitivamente a causa dei dissapori tra i due galli in cartellone.

Michele Anselmi