La Mostra di Michele Anselmi per Cinemonitor (9)

La battuta che gira tra i festivalieri non è male: da “La La Land” a “Na Na Land”. Na come Napoli, s’intende. Ormai cittadini onorari della città partenopea, i romanissimi Antonio e Marco Manetti, meglio noti come Manetti Bros, hanno deciso di dare un seguito al loro fortunato “Song’e Napule” del 2013. Il nuovo film doveva chiamarsi “Nun è Napule”, ma strada facendo s’è preferito “Ammore & malavita”, funzionale al clima da musical survoltato con un occhio al poliziesco d’azione e uno alla sceneggiata strappacore.
Non ha sbagliato il direttore Alberto Barbera a metterlo in concorso, certo rischiando un po’; anche se gli interessati, che sono notoriamente burloni, ci scherzano sopra facendo gli scongiuri: “Diciamo che è come se la Sanbenedettese andasse al Bernabeu a giocare contro il Real Madrid” hanno detto ad Andrea Morandi di “Ciak in Mostra”.
Il film, nato da un’idea di Carlo Macchitella, che coproduce con la società dei Manetti e soprattutto Raicinema, è una riuscita: fresco, divertente, ricolmo di strizzatine d’occhio e parodie cinefile, anche di ottima musica firmata da Pivio & Aldo De Scalzi su testi di Alessandro Garofalo (Nelson). Dura tanto, ben 133 minuti, ma non si guarda mai l’orologio, il che depone a favore dell’esperimento. Rivolto al grande pubblico e tuttavia animato da una certa finezza/scaltrezza d’autore.
Nel frullatore dei Manetti anche “Gomorra” diventa lo spunto per uno sfottò tra l’affettuoso e il pungente: vedi la gita turistica alle Vele di Scampia, su una scuola-bus rubato, con tanto di scippo per la delizia dei paganti stranieri; ma soprattutto l’apparizione dello spilungone e nasuto Ciro Petrone, il quale, benché armato di Kalashnikov come nel film di Garrone, stavolta viene risparmiato.
La storia, ridotta all’osso. Scampato per miracolo a un agguato, il potente don Vincenzo finge d’essere morto e si nasconde nella segretissima “panic room” in attesa d’espatriare con la moglie avida. Nella bara è finito un povero venditore di scarpe colpevole solo di somigliargli. Ma un’infermiera precaria ha visto in ospedale ciò che non doveva vedere, sicché il superkiller Rosario, metà di un duo letale chiamato “Le tigri”, viene spedito a eliminarla. Facile a dirsi: Fatima, la giovane donna, fu nell’adolescenza il primo amore del sicario, che ora, nel ritrovarla uguale e cambiata, non sa più bene cosa fare…
Le citazioni si sprecano: “Flashdance”, i film di 007, “Il marchese del Grillo”, “Ritorno al Futuro”, i polizieschi di John Woo, e via accumulando. Ma non sono ingombranti o gratuite. I Manetti giocano con una certa Napoli “neo-melodica” e col prediletto cinema di genere, ritagliandosi anche una comparsata nella metropolitana di New York. Sopra le righe quanto basta, e pure bravi a cantare e ballare, gli interpreti principali, che sono Giampaolo Morelli, Serena Rossi, Claudia Gerini, Carlo Buccirosso in doppio ruolo e Gennaro Della Volpe in arte Raiz. Avrete capito che “Ammore e malavita” lavora sui cliché partenopei con spirito goliardico, senza prendersi mai sul serio. Per questo di sicuro piacerà anche al sindaco Luigi de Magistris e al patron Aurelio De Laurentiis.
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Si spara molto, ma non per ridere, anche in “Loving Pablo”, il film dello spagnolo Fernando Léon de Aranoa passato tra i Fuori concorso. Il Pablo in questione non è Picasso bensì Escobar, il supernarcotrafficante che terremotò la Colombia prima d’essere ucciso in un conflitto a fuoco nel 1993, all’età di 44 anni. Javier Bardem, pure produttore, si diverte a incarnarlo sotto la parrucca riccioluta e le protesi gommose necessarie a farlo sembrare panzone. Il film, purtroppo girato in inglese, è rozzo, schematico, ma a suo modo efficace. Il famigerato “re della coca” è già stato portato al cinema da Benicio Del Toro, e tuttavia Bardem, del tutto fuori parte in “mother!” di Aronofsky, qui giganteggia, anche per gigionismo, nel restituire lo spirito imprenditoriale, la ferocia inaudita e le premure paterne del criminale. Si allinea al registro a tratti grottesco anche Penélope Cruz, nei panni dell’anchorwoman colombiana Virginia Vallejo, che fu controversa amante di Escobar e poi oggetto di pesanti minacce di morte prima di essere presa sottotutela dalla Dea statunitense. “Loving Pablo” si svolge tra il 1981 e il 1993, secondo gli schemi classici della formula ascesa/ trionfo/caduta (un po’ alla “Scarface” di De Palma). Talvolta, tra una canzone dei Santana e un aereo del narcotraffico che atterra come niente fosse su un’autostrada della Florida, viene da chiudere gli occhi di fronte alle crudeltà perpetrate. Per dire: a un certo punto ammazzano un uomo legandogli un pastore tedesco sulla schiena, naturalmente reso rabbioso dalle botte ripetute.
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Tutt’altra atmosfera nel secondo film odierno in concorso. Nella Mostra attraversata dal filo rosso del razzismo e delle migrazioni non guasta l’australiano “Sweet Country” del regista, sceneggiatore e direttore della fotografia Warwick Thornton. Titolo da leggere per antifrasi, quel Paese non fu affatto “dolce” vero i nativi; e storia vera, che risale al finire degli anni Venti, tra gli aridi e maestosi panorami dell’Australia centrale, dalle parti di Alice Springs.
Thornton applica i moduli narrativi di un certo western minimalista e antropologico per raccontare la fuga a piedi di un cowboy aborigeno e di sua moglie. Accusato di aver ucciso un piccolo proprietario bianco reduce dalla Prima guerra mondiale, dedito a violentare le donne e maltrattare i “neri”, l’aborigeno Sam Kelly ingaggia una sfida neanche tanto simbolica con un sergente razzista deciso a farlo impiccare. Si capisce sin dalle prime inquadrature, a mo’ di flash-forward, che la faccenda, sia pure dopo un processo equo, non finirà bene. Ma è notevole lo stile severo, fatto di silenzi, dettagli, sospensioni, che Thornton applica a questa ballata amarissima incisa sulla pelle del protagonista Hamilton Morris. Nel cast due attori australiani molto noti a Hollywood negli anni Ottanta e poi quasi scomparsi: Sam Neill e Bryan Brown.
La facciata di un’erigenda chiesetta, in quel villaggio selvaggio e desolato, suggerisce forse un barlume di speranza, mentre sui titoli di coda echeggiano le note del gospel “There Will Be Peace in the Valley for Me” cantata da Johnny Cash. Bellissima.

Michele Anselmi