Il cinema ai tempi del Multiplex | Pubblicato su Il Corriere della Sera del 21 febbraio

In Italia sta accadendo qualcosa di grave, ma pochi ne parlano. Ci sono delle imprese che, dopo aver sloggiato centinaia di cinema dai centri urbani, stanno emarginando migliaia di cittadini soprattutto adulti, meno propensi a mettersi in auto per andare a cercare un film nei multiplex metropolitani. Il fiorire delle multisale, diventate il tempio del divertimento giovanile, si accompagna alla emarginazione dei film meno commerciali, privando così gli stessi giovani di un confronto con titoli importanti che puntano su impegno e qualità. Da notare che queste sale godono di finanziamenti a fondo perduto e non pochi benefici fiscali dallo stato. In cambio di cosa? Certo il cinema, incluso quello dei grandi autori, è anche industria. Tuttavia se a dettare legge è solo il lato commerciale, sarà un guaio per tutti. Dichiaro subito di essere interessato perché sta per uscire un mio film e non posso non essere preoccupato. Ci sono nel cinema operatori ai quali poco importa del valore di un film, gente che misura a spanne le pellicole in rapporto ai soldi che possono fare. Sigmund Freud diffidava proprio di costoro. A Hollywood gli avevano chiesto più volte di lavorare per loro. Non accettò mai perché riteneva il lato commerciale estraneo alla cultura. Lo disse chiaro e tondo a Samuel Goldwyn, fondatore della Metro Goldwyn Mayer, quando nel 1924 attraversò l’oceano per convincerlo a scrivere "una grande storia d’amore per il cinema". Da allora le cose sono peggiorate. Se all’inizio gli artisti prevalevano sui finanziatori (la United Artists nacque per volere di 4 attori e registi: Charlie Chaplin, Douglas Fairbanks, Mary Pickford e David W. Griffith), col tempo le cose si sono capovolte. Oggi il potere sta in mano a chi controlla il denaro. Nell’industria del cinema c’è una lobby potente, che il pubblico non conosce. E’ quella degli esercenti. Questa categoria ha l’ultima parola sulla “tenitura” di un film, quanto tempo resterà in sala, dunque quanto incasserà. Il guaio è che se un film non monetizza sin dal primo weekend, può essere un capolavoro, ma la sua sorte è segnata. Non era così un tempo, quando l’esercizio partecipava ai costi di produzione e aveva tutto l’interesse a difendere lo sfruttamento sino all’ultimo centesimo. Sembra incredibile, ma il luogo principale dove si consuma il “bene” cinematografico è spesso anche il più insensibile alla circolazione dei film migliori. Si tratta di una dicotomia insolubile. Ricorda certe storture dell’amore: “né con te né senza di te”. Per molti autori la dura legge dell’esercizio sta diventando un’ossessione. I nemici del cinema, dicono, sono gli esercenti. Molti registi arrivano al punto di preferire Internet, pensando di trovarvi più libertà che in sala. Ma è una illusione. Nulla in contrario al proliferare del successo di commedie, anche se sgangherate. Servono pure quelle. Ma può un paese vivere solo di risate? Sopravviverebbero oggi autori come De Sica e Fellini, stando al “gusto” prevalente dei multiplex? Cosa sta facendo il cinema italiano per impedire che il consumo uso e getta impedisca l’accesso a chi non vuole ridere soltanto? Pongo il quesito soprattutto a chi impiega il denaro pubblico, parlo della Rai in quanto produttrice e distributrice. Di fronte alla “dittatura” dei multiplex, il cinema pubblico dovrebbe occupare il terreno rafforzando la sua mission. Il che significa dare un segnale forte per essere presente alla pari, offrendo agli spettatori le stesse opportunità dei film più commestibili. La par condicio vale solo per i politici? Basta fare un paragone con un paese vicino. In Francia, dove la cultura è tenuta in massima considerazione, un film difficile ma importante come Una separazione, in odore di Oscar, è stato visto da 846.000 spettatori in tutte le sale. Da noi solo 77.000 in poche sale. E’ la riprova che non tutti usano i film per fare soldi, c’è anche chi usa i soldi per fare i film. E anche guadagnandoci. Il famigerato I soliti idioti piazza sul mercato centinaia di copie? Fa benissimo. Ma perché non fare altrettanto con film meno consumabili, capaci di arricchire la mente dei ragazzi? Un’azienda pubblica deve certo guardare al mercato, ma anche porsi il problema di orientarlo, non di subirlo. Il principio vale per il grande come per il piccolo schermo. E’ come se in tv trionfassero solo i reality e venisse abolito tutto il resto. Speriamo che Monti, nel mettere mano alla riforma, non cada ancora una volta nell’errore di pensare alle pedine e non ai contenuti. Il furto più grave viene commesso proprio ai danni dei giovani. Di questo passo la legge dell’audience invaderà anche le scuole e le università. A furia di pensare solo a far ridere i ragazzi non finiremo per crescere una marea di gente un po’ troppo tristemente allegra?