L’angolo di Michele Anselmi

Meritava di vincere l’Oscar per “il miglior film”? Certamente no. È “solo una commedia stucchevole e televisiva”, come pure ho letto? Certamente no. “I segni del cuore”, da qualche settimana su Sky, esce nelle sale il 31 marzo con Eagle Pictures e vedremo se il trionfo alla Notte degli Oscar porterà pubblico in sala (sarebbe un fenomeno interessante). Il titolo originale recita “Coda”, e molti si sono chiesti che accidenti volesse dire: trattasi di acronimo anglosassone, significa “Children of deaf adults”, cioè figli udenti di genitori sordi. Come nel caso di Ruby Rossi, la diciassettenne protagonista della vicenda, desunta pari pari, come ormai sanno anche i sassi, dal film francese “La famiglia Bélier” di Eric Lartigau, che uscì in Italia nel marzo 2015.
Meglio l’originale transalpino o il remake americano con soldi francesi? Il confronto per una volta è possibile, ravvicinato, anche stando in casa, perché “I segni del cuore” lo si trova appunto su Sky, mentre “La famiglia Bélier” è su Amazon Prime Video.
Ciò detto, mi pare che la regista 44enne Sian Heder abbia fatto un onesto lavoro di cine-trascrizione, a tratti pantografando il copione francese, ricco di spunti e situazioni buffe, anche politicamente “scorrette” (è lecito desiderare che la figlia appena nata sia sordomuta per non alterare l’equilibrio familiare?), ma poi inventando un contesto diverso. Se i Bélier erano contadini nel ramo formaggi, i Russo sono pescatori di Gloucester, sempre alle prese con il crollo del mercato ittico. Dei quattro, solo Ruby parla e va a scuola, sottoponendosi a giornate di fuoco: la mattina all’alba sul peschereccio per aiutare i suoi e far da “traduttrice” parlando lei la lingua dei segni, subito dopo al liceo per non restare indietro con gli studi, il pomeriggio a prendere lezioni di canto dal bizzarro e intuitivo prof. Villalobos che rintraccia in lei un talento assoluto.
In effetti, la ragazza ha un “dono”, canta come un usignolo, solo che in famiglia quella faccenda della musica viene presa per “un difetto”. Figurarsi se permetteranno mai alla figlia, forse già innamorata di un ragazzo col quale lei deve metter su un duetto vocale, di iscriversi al prestigioso Berklee College di Boston nel caso passasse l’esame.
Cambiano ovviamente le canzoni, a partire dal duetto in questione: non più “Je vais t’aimer” di Michel Sardou, bensì “You’re All I Need to Get By” di Marvin Gaye & Tammi Terrell. Ma mi pare il minimo. Così come, nel finalissimo a forte intensità emotiva, praticamente uguale al modello francese, sarà “Both Side Now” di Joni Mitchell invece di un’altra canzone di Sardou e coronare il sogno della fanciulla quando tutto sembrava perso.
Le domande che si pose Lartiguau a proposito del suo film valgono in buona misura anche per il rifacimento yankee. “È possibile lasciarsi con dolcezza? Amarsi profondamente senza vivere in simbiosi? In una famiglia che cosa serve per andare avanti, che cosa ci fa soffocare?”. Poi certo, la confezione americana risulta a tratti più “smaltata”, a volte troppo carezzevole, pur nell’ambientazione rudemente proletaria; e scompaiono alcuni irriverenti riferimenti politici presenti nel film francese: le ironie sull’allora presidente Hollande, quel vitello nero chiamato “Obama”, eccetera. Però anche qui si parla di sesso, di preservativi, d’infiammazioni genitali, in una chiave popolare, spigliata, a suo modo realistica, che fa emergere strada facendo il timbro della favola a lieto fine.
La britannica Emilia Jones, in camicia a scacchi e salopette di jeans, non fa rimpiangere la francese Louane Emera, fisicamente più fiorente e luminosa, e comunque entrambe cantano davvero bene. Quanto alla famiglia, nel film americano padre, madre e figlio, cioè Troy Kutsor, Marlee Matlin e Daniel Durant sono davvero sordomuti, anche se, paradossalmente, risultavano più credibili i francesi François Damiens, Karin Viard e Luca Gelberg (solo quest’ultimo è audioleso).
In definitiva: “I segni del cuore” custodisce un cuore gentile ma non zuccheroso, che pulsa e trasforma la commedia marinara in un romanzo di formazione, forse prevedibile ma non banale, su un’età difficile, sempre “vibrante e vacillante” per dirla con Lartigau.
PS. Non sapevo che David Bowie, citato e cantato nel film, avesse definito quella di Bob Dylan “una voce come di sabbia e colla”.

Michele Anselmi