L’angolo di Michele Anselmi

“Signor Mortara, suo figlio Edgardo è stato battezzato, non è più ebreo, è cristiano. Ho l’ordine di portarlo via”. Accadde a Bologna, la sera del 23 giugno 1858, e si stenta a credere che sia andata così, invece andò proprio così. Un imbarazzato poliziotto dello Stato Pontificio, che allora si estendeva fino alla città felsinea, queste parole scandì a Salomone “Momolo” Mortara, commerciante ebreo e padre di otto figli, poi sarebbero diventati nove, di fronte allo strazio della moglie Marianna Padovani.
Il piccolo Edgardo, di appena sette anni, fu prelevato dalla casa di via Lame e avviato a Roma, nella Casa dei Catecumeni, per volontà di papa Pio IX, perché avesse un’educazione cattolica. Il tutto “secondo il diritto canonico” allora in pratica.
Parte così “Rapito”, il nuovo film di Marco Bellocchio, passato in concorso al festival di Cannes e da giovedì 25 maggio nelle sale con Rai Cinema, coproducono Beppe Caschetto e la società del regista, Kavac. Un gran bel film, pure una storia esemplare, atroce, che rimbalzò perfino negli Stati Uniti, in seguito ricostruita da vari storici e saggi. Voleva trasporla sullo schermo anche Steven Spielberg, ma è meglio che sia rimasta nel cassetto: sarebbe stata girata in inglese, con attori inglesi o americani, dentro una logica hollywoodiana.
Bellocchio, a 83 anni, non è più il regista di “Nel nome del padre” e nemmeno di “L’ora di religione”. Ha ragione Fabrizio Gifuni, che è stato dolente Aldo Moro in “Esterno notte” e qui incarna lo zelante Inquisitore del Sant’Uffizio, il domenicano Pier Gaetano Feletti, quando dice in un’intervista a “La Lettura” firmata da Stefania Ulivi: “Trovo che il cinema di questa seconda o terza stagione meravigliosa di Bellocchio sia ancora più ricco e complesso di quanto non sia stato in passato”. Verissimo. C’è da attendersi che alcuni ambienti legati al Vaticano protestino per come viene rappresentato Pio IX, il quale regnò sulla Chiesa dal 1846 fino al 1878, e certo il film, scritto dal regista con Susanna Nicchiarelli, non va tanto per il sottile, facendo di lui un declinante “Papa-Re” venato di fanatismo, di insinuante perfidia e obliqua magnanimità, a suo modo diabolico, convinto d’essere sempre nel giusto e di dover rendere conto solo a Dio dei suoi atti.
Ma “Rapito”, a mio parere, è più sottile della colorita caratterizzazione che l’attore veneto Paolo Pierobon dà del pontefice senigalliese: come se Bellocchio, strada facendo, dopo quell’incipit duro e senza fronzoli, quasi documentaristico, abbia voluto investigare alla sua maniera sulla complessità e il mistero dell’animo umano, oltre il discorso evidente sul “lavaggio del cervello” e la conversione imposta. Perché il rapito poi abbracciò in pieno il cattolicesimo, aborrì la breccia di Porta Pia del 1870 e diventò don Pio Mortara, senza mai più riavvicinarsi all’ebraismo, nella sofferenza acuta dei suoi otto fratelli e dei genitori, fino alla morte avvenuta nell’Abbazia di Bouhay in Belgio, 1940, quasi novantenne.
Vi domanderete come fu possibile, per gli sbirri del Papa, sottrarre il ragazzino alla famiglia. La vicenda ha dell’incredibile. La domestica contadina dei Mortara, Anna Morisi, aveva battezzato di nascosto Edgardo, a sei mesi, nel 1852, temendo la sua morte per via di una malattia, a evitare che “finisse nel limbo”; ma solo sei anni dopo, forse anche per denaro, rivelò all’Inquisitore quanto aveva fatto. Il che fece scattare il provvedimento: iniquo, disumano, ma “legittimo”.
Il film, lungo oltre due ore, mai noioso, ben fotografato da Francesco Di Giacomo con elegante gusto pittorico, purtroppo bombardato dalle musiche di Fabio Massimo Capogrosso (perché tanta paura del silenzio?), è di quelli “da dibattito” ma certamente non solo. Bellocchio intreccia i temi della credulità popolare e dell’orgoglio religioso, della superstizione e della fede, lasciando affiorare, pur nella sferzante critica al potere temporale della Chiesa, un orizzonte psicologico sfaccettato e non banale, tra pragmatismo e dedizione. Alla domanda che Pio IX rivolge ai ragazzini ebrei convertiti a forza, l’unica capace di rispondere sarà il brillante Edgardo: “È una verità di fede che non si discute”. Ma l’amichetto romano strappato al Ghetto gli ha appena insegnato che “tocca fasse furbi”, in modo da lasciar credere agli occhiuti docenti di aver digerito la conversione.
Naturalmente Bellocchio è Bellocchio: l’accurato realismo minimalista degli abiti, degli ambienti, delle acconciature (belli anche gli effetti speciali digitali, specie quelle case sugli argini del Tevere in prossimità di San Pietro che ricordano certi dipinti di Ippolito Caffi) non impedisce al regista piacentino di ricorrere qua e là a una dimensione onirica, del resto accentuata nei suoi film più recenti. Qui c’è una scena cruciale, suggestiva, diciamo un po’ in stile “Interno notte” ma non vorrei guastare la sorpresa, che si misura con l’immagine potente e terribile del Cristo crocifisso, specie nello sguardo di un bambino israelita.
Tra i tre film italiani in gara a Cannes, “Rapito” mi pare di gran lunga il più riuscito e potente, anche per la cura che Bellocchio ha messo nello scegliere gli interpreti. Di Gifuni e Pierobon s’è detto, ma poi ci sono i protagonisti, tutti perfetti, che sono Fausto Russo Alesi, Barbara Ronchi, Leonardo Maltese ed Enea Sala, rispettivamente nei ruoli del padre, della madre e di Edgardo grandicello e bambino. Filippo Timi fa alla sua maniera il luciferino cardinale Giacomo Antonelli, che fu segretario di Stato con papa Pio IX. Fisicamente ben diverso nella realtà, ma siamo al cinema e quindi…

Michele Anselmi

PS. Consiglio di vedere, se non lo conoscete e riuscite a trovarlo, “Confortorio” di Paolo Benvenuti. La storia è diversa ma attinente.